Milano: Factum Est di Giovanni Testori

Cosa significa, oggi, affermare la vita? Perché ogni vita è “necessaria”?
“Cri”. Comincia così il Factum Est, uno dei monologhi più intensi del teatro testoriano: a spezzare il silenzio è il balbettio di un feto, una sillaba appena accennata, apparentemente incapace di significato, e che tuttavia nella sua incompiutezza, descrive già la direzione di una domanda.
Era il 1980 quando Giovanni Testori scrisse questo monologo per un giovane Andrea Soffiantini, sfidando con questa scommessa la scena italiana: quel che nasce dal loro incontro è una parola che prende vita a poco a poco, fragile e potente, e che incalzando il cuore dello spettatore sa dare voce e corpo allo scandalo del dolore umano.
Non soltanto il dolore del protagonista (un feto abortito, negato da un padre affaticato e sfuggente, e da una madre accondiscendente); la parola s’incarna e si allarga, tracciando la scansione di una via crucis: l’urlo viscerale di chi non vedrà mai la luce assurge così a grido universale, interrogazione implacabile sul senso
della fatica e del dolore, indagine infiammata sulla libertà dell’uomo.
Di qui, l’urgenza di accogliere la provocazione del testo e paragonarsi concretamente con esso, sfidarlo e sfidarsi, nel confronto quotidiano di lettura e discussione che ha determinato il percorso della giovane compagnia.
Un percorso che si è svolto nel segno di quell’“appartenenza” indicata da un celebre dialogo tra Testori e don Giussani (Il senso della nascita, 1980):
“il concetto supremo antropologicamente più grande del cristianesimo, è il concetto d’offerta.
[…] Se l’uomo in quel che fa, in quello che sta facendo, fosse anche lì, fermo, nel letto, riconosce d’appartenere al disegno di Dio e alla sua volontà, riconosce di
appartenere a Cristo, egli diventa insostituibile funzione a quel disegno; quel disegno mancherebbe di qualche cosa se mancasse di quell’istante; e quel disegno, a prescindere da tutti i condizionamenti, dà a quell’istante dell’uomo tutta la carica del suo significato totale, cioè Cristo stesso. Non c’è più l’inutile, non c’è più lo
sfortunato, non c’è più il disgraziato, non c’è più deietto; ma tutto quanto il valore dell’uomo […] si gioca nella coscienza e accettazione di appartenere in quello che fa.