“Quattordici Preghiere” di Francis Jammes

Dicembre 19, 2017
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AIC segnala l’uscita del libro di Francis Jammes “Quattordici Preghiere. La chiesa vestita di foglie”, traduzione di Roberto Gabellini (Raffaelli Editore, 2017).

Francis Jammes (1868-1938) è un poeta ‘antico’. Lo era già per i suoi contemporanei, volendo egli opporre i sentimenti di un’anima ingenua e paesana alle complicazioni intellettuali della poesia che nasceva dalle città, ed è così anche per noi che lo rileggiamo oggi, se pur solo per la distanza che ci separa da lui e dal suo mondo troppo lontano. Proprio il tempo trascorso sembra infatti aver liberato le sue parole dal peso di quella sorta di opposizione programmatica alla poesia moderna cui sembravano destinate.
Parole comunque inusuali, certo, com’è per tanta natura che freme, spesso dolce o pia e sempre pura, che uscirebbero malsicure dalle nostre mani, ma che nella poesia di Jammes – con il suo continuo succedersi di immagini sempre nuove e sorprendenti – rivelano un loro senso profondo, un temperamento che le rende credibili. Non solo dunque la testimonianza di un mondo che non c’è più o, peggio, la sua ombra retorica, ma parole vere, che pare di sentir pronunciare ad alta voce, come in un dialogo possibile tra persone reali. O con Dio stesso, com’è appunto la raccolta di Quattordici preghiere (1898).
In esse il poeta – come un uccello che si accuccia a sanguinare tra due sassi – racconta i suoi dolori, ma, di continuo, ogni cosa che vede accadere, anche solo un nido che dondola su un ramo, lo distrae da essi, ne cattura gli occhi e il cuore. Come se non riuscisse a trovarsi mai davvero solo con la propria sofferenza, costretto a osservare le cose intorno e a stupirsi della loro compagnia; sorpreso che il mondo continui a esistere, che le cose stiano andando nella direzione stabilita e non ne vogliano sapere di sparire; sgorgando invece, sempre nuove, da una sorgente misteriosa: quasi la constatazione che la tristezza e il dolore, pur vivi e reali, non possano uccidere il mondo, la sua bellezza, la sua incessante novità.
Così egli si abbandona a questa scoperta come a un abbraccio misterioso, a un’ultima dolcezza che non si sa da dove venga, sconosciuta, ma che non è possibile consumare, che la sofferenza dell’uomo non riesce a scalfire. Come davanti a un segreto, a un Dio nascosto dietro ogni albero, dietro ogni singolo stelo d’erba, cui domandare di avere i Suoi stessi occhi e il Suo stesso sguardo – ecco, questo sono le Quattordici preghiere – e così riuscire a vedere le cose oltre la loro apparenza, oltre la semplice registrazione pur minuziosa dei loro colori e contorni, di ogni loro singolo movimento.
Ma Dio non risponde. O almeno non ancora. Sembra mettere alla prova la sua superbia – quell’orgoglio che ancora mi avvelena – e quel suo gusto un po’ naïf per gli incensi, per le piccole chiesette di campagna, per i santi scolpiti nei pulpiti di legno e che gli fanno sognare una vita più devota e una santità – verrebbe da dire – che però non ha ancora conosciuto Dio.
Come dirà lui stesso, in questo suo abbandono egli conserva allo stesso tempo l’anima di un fauno e l’anima di un adolescente; ed è ben vero che in queste sue preghiere, accanto al sentimento di meraviglia di cui s’è detto, è visibile un certo compiacimento sensuale e che la fede che professa è ancora quella di un esteta.
Certamente il suo rivolgersi a Dio è reale, seriamente drammatico come lo è il suo sentire della vita, ma in fondo non prevede che Egli risponda; ancora troppo attaccato al proprio rango di poeta, ai propri sentimenti, alle proprie parole. Ben conscio lui stesso della necessità di spogliarsi di tutto questo: Mio Dio, io compiango ancora oggi di non essere abbastanza semplice per Voi. E Dio infatti non esce dal proprio nascondiglio, rimanendo celato dentro quella realtà che al poeta doveva apparire come l’asina gravida che cammina incerta di una sua poesia.
Quel Dio nascosto risponderà qualche anno più tardi. E se pur non ha senso guardare alle Quattordici preghiere solamente come a una tappa del poeta verso la fede, possiamo dire che l’itinerario poetico di Jammes coincide con la storia della sua conversione e con lo svolgersi di essa. Una conversione che per lui consisterà nella professione di fede nella Chiesa, nella sua accettazione come presenza reale di quel mistero tanto invocato; ormai trasformato da fatto estetico a fatto concreto. Bisogna che sia così, oppure niente! Ma chi, che cosa? La Chiesa cattolica, apostolica, romana, che aveva già cominciato a illustrarmi Paul Claudel, il mio secondo angelo custode.
E certo non è un caso che quella Chiesa cattolica, apostolica, romana, nella raccolta che segue la conversione – La Chiesa vestita di foglie (1905) –, si presenti appunto ornata e impreziosita proprio di quella natura tanto amata che aspettava di poter diventare segno efficace, di poter indicare infine qualcosa di preciso, di ‘esatto’, e non più solo un sentimento vago o una sorta di nostalgia indefinita.
Un esercizio al quale Jammes si dedica con la passione e l’incoscienza letteraria che gli sono proprie. E se pur qualche volta inciampa nell’apologetica e, come direbbe lui stesso, in qualche posa, d’altra parte egli mantiene quel suo temperamento originale, che gli fa ‘interrogare’ Dio continuamente, chiedendogli conto del Suo silenzio e delle prove cui lo costringe.
Così come conserva quel suo peculiare pathos della sofferenza che cinquant’anni più tardi potrà essere letto anche in chiave sociale, portando le parole che introducono il suo Rosario a entrare tra le bandiere dell’impegno civile in una canzone di Georges Brassens.
Una sorta di inciso, questa preghiera a Maria che chiude La Chiesa vestita di foglie, che ci mostra in modo ancora più evidente come la poesia di Jammes trovi il proprio punto definitivo di consistenza e di aggregazione proprio nella possibilità di dare un nome a quella tenerezza misteriosa da cui, da sempre, egli si sentiva catturato e di riconoscere, oltre la somiglianza divina che aveva sempre intuito in tutte le cose, un Dio finalmente vivo e presente.
(Roberto Gabellini)


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