La questione

Sul film “Il Labirinto del Silenzio” di Giulio Ricciarelli

21 Ottobre 2019
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La diabolica pervasività del male sembra annichilire Johann Radmann, giovane magistrato della Procura di Francoforte, man mano che si rende conto, nel corso della sua scrupolosa indagine sul passato nazista tedesco, quanto sia stata tragicamente estesa l’adesione del popolo a quell’ideologia malvagia, fino a coinvolgere anche il padre della sua fidanzata e perfino il proprio.
La sua appassionata ricerca della verità e della giustizia si arresta e così sembra venir meno anche la convinzione di poter cambiare quell’orribile realtà, fatta di assuefazione, se non di palese connivenza col male assoluto.
Un male che potrebbe essere nascosto ed emergere anche dentro di noi: “cosa avrei fatto io se mi fossi trovato tra gli aguzzini di Auschwitz?” si domanda disperato il protagonista, al colmo dello sconforto, quando si accorge che anche il suo migliore amico, il giornalista Thomas Gnielka (personaggio realmente esistito, come il procuratore Fritz Bauer, cui il film rende omaggio), era stato reclutato, inconsapevole diciassettenne, tra le guardie del campo di concentramento.
Ma è proprio quella grande figura di procuratore a spiegargli che il loro compito non è in realtà quello di stabilire quanto siano più o meno colpevoli i vari carnefici, ma è quello di far emergere la verità, far prendere coscienza, per quanto possibile, della terribile colpa collettiva, che con il boom economico di allora si cercava di nascondere, per fare in modo che quella tragica dimenticanza dell’umano non potesse più riaccadere.
Il male, per quanto enorme, per quanto insidiosamente e ineluttabilmente sempre latente nell’animo umano, non ne rappresenta dunque l’orizzonte ultimo, il destino finale.
Ma la consapevolezza che la presenza inesorabile del male non deve essere il limite dell’aspirazione alla giustizia e alla verità non può venire solo da uno sforzo umano, ci dice il regista: nello struggente episodio della recita del Kaddish di fronte al reticolato di Auschwitz, in ricordo delle figlie di Simon, lì torturate e uccise, Johann e Thomas trovano l’unica ragione che rende di nuovo possibile la speranza e la riconciliazione, in primis tra loro.
“Dio non è morto ad Auschwitz”, affermerà infatti Simon, che, particolare non secondario, supplica i due amici di fare insieme, e non da soli, quel semplice, ma fondamentale, gesto, con cui viene finalmente riaffermata la certezza di un destino buono, che rende possibile ricominciare a sperare e quindi a vivere. Perchè la salvezza non ce la possiamo dare da soli e dalla tentazione del nichilismo ci si salva soltanto insieme.
Gli amici de “il Circolino” di Crescenzago


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