Chiedo scusa se parlo del “Signor G”

Gennaio 6, 2017
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Pubblichiamo due articoli di Giuseppe Fidelibus su Giorgio Gaber, pubblicati uno subito dopo la sua morte nel gennaio 2003, l’altro recentemente.
“L’uomo capisce tutto tranne le cose perfettamente semplici”. L’ironia di Gaber nel rievocare la scoperta del cielo “azzurro” (non “d’oro”) nella pittura di Giotto suona come giudizio realistico nell’astrattezza complicante della cultura oggi dominante che – forse proprio per questo – si ostina a non capire la persona e l’arte di Giorgio, soprattutto quando lo approva o lo esalta.
Chiedo, dunque, scusa se parlo del “Signor G” e della sua semplicità di uomo. La dolorosa notizia della sua morte ha per me fissato nella definitività dell’eterno la semplicità schietta di una quasi ventennale amicizia che, col sottoscritto, tanti compagni di cammino hanno avuto il piacere di condividere; un Gaber sorpreso nel vivo del suo lavoro: dietro le quinte alla fine di uno spettacolo, a cena in pizzeria o, addirittura, in camerino prima di salire sul palcoscenico. Sì, Giorgio lo abbiamo scoperto amico “in azione”. Ho avuto modo d’incontrarlo per la prima volta a Prato (Teatro Metastasio, 1983) insieme e grazie a mio fratello Silvio; in scena Il caso di Alessandro e Maria, con Mariangela Melato. “La prima fila è d’obbligo per Gaber – mi dice Silvio – offro io! Devi essere attento a vedere bene l’abbinamento sincronico tra le parole, i gesti e le espressioni del volto” (un aspetto della “semplicità”…). Aveva ragione! La mia fragorosa ed isolata risata sull’ultima scena del primo tempo (“…hostess!”) fu lo spunto che incuriosì il “Signor G”: mi riconobbe non appena comparii nel suo camerino (v. la foto che conservo) e giù un risatone, insieme. Gli chiedevo e domandavo curioso sull’uso che faceva di parole quali “essere”, “mistero”, “io”…così espressivamente corporee, tutt’uno con gesti e sguardi: la sua persona. Lo cominciai a preferire, per questa intelligenza tutta sua, tra i cantautori ben più seguiti ed ascoltati. Trovavo che in lui l’espressione familiare “senso religioso” ricevesse una personalizzazione nuda e cruda che aveva del geniale (“la genialità poetica di Gaber” – Don Giussani). Da quel primo incontro nacquero tanti altri anche con miei amici universitari del Movimento; aveva saputo che ero/eravamo di CL e, quando ci vedeva in sala – a Siena, a Torino…- , non mancava mai di dedicarci (“agli amici di CL”) un brano tra i bis. Ricordo quando, stupito, dopo aver partecipato al Meeting mi disse di essere rimasto colpito dal fatto che potesse esserci un posto come quello, dove la gente, pur stando insieme, riuscisse ad usare la propria testa senza “svenderla” (era la sua “ossessione”). Così, brani come “Io e le cose”, “L’attesa”, “C’è solo la strada” nella scuola dove insegnavo cominciarono ad essere oggetto di ascolto e lavoro in classe con gli studenti. Quando venne a saperlo rimase shockato: mi chiese di poter leggere qualche commento dei ragazzi, tanto era incuriosito. Ben presto questa curiosità si trasformò in domanda; vorrei perciò regalare a chi legge un fatto eloquente a riguardo.
Nella mia rubrica scolastica settimanale “Consigli per gli acquisti” (consigliavo ai ragazzi libri, films, concerti, mostre, spettacoli) indicai lo spettacolo di Gaber a Pescara, sede della scuola. I ragazzi avevano ancora in mano i loro commenti al brano “Io e le cose”. Andarono spontaneamente ad incontrarlo alla fine dello spettacolo dicendo che erano miei allievi. Mi mandò a dire che voleva incontrarmi il giorno successivo. Lo incontrai durante una pausa delle prove: “Fra 3 giorni sarò a Chieti – mi disse – Possiamo incontrarci con i tuoi amici di CL?”. Lo dissi a 4 amici. All’incontro eravamo un centinaio di persone! Rispose alle nostre domande parlando del suo lavoro; ci disse: “Io non scomodo la gente a venirmi a sentire se non ho qualcosa da dire. Essere stupito che questo accada mi permette di avvertire una strana unione con chi è lì a teatro. La gente, però, spesso viene solo perché ha fatto l’abbonamento (chi c’è, c’è: fa lo stesso) ed è lì come in un intervallo tra una televisione e un’altra. Ecco, devo dirvi sinceramente che quando so che tra il pubblico c’è qualcuno di voi di CL mi sento veramente ascoltato. Allora l’accadere di quell’unità tra palcoscenico e pubblico è per me evidentemente più facile: lo avverto anche fisicamente come un’evidenza irresistibile! Il teatro diventa più facilmente un noi. Di questo vi ringrazio…”
Alla fine dell’incontro – durato circa 1 ora – mi chiede di “fare la sintesi” (sic!) ed io, un po’ impacciato, ma rassicurato dalla familiarità sempre più chiara, osservo: “Ma tu, hai una domanda, tu, da fare a noi, visto che ci hai chiesto di incontrarci?”. E lui, piuttosto riflessivo: “Sì. Vedete, io – non ritengo di conoscere bene la vostra esperienza – sono però abituato a pensare la fede (forse non sarà neanche giusto…) come qualcosa che un uomo debba tenere intimamente in cuor suo come un bene prezioso. Trovo, dunque, incomprensibile in voi di CL tutta questa urgenza di spiattellarla lì davanti a tutti e a tutti i costi: penso che così si perda tutta la sua intensità, il suo valore ‘spirituale’. Vorrei, però, che, su questo, foste voi a spiegarmi: vorrei capire…”. “Caro Giorgio – faccio io – a noi succede come a te sul palcoscenico della vita. L’incontro con l’esperienza cristiana nel Movimento è una cosa talmente umanamente interessante che è l’unica cosa per cui possa essere ragionevole che qualcuno ci ascolti (non siamo migliori di altri). Solo in forza di questa esperienza – come accade a te in teatro – scomodiamo volentieri chiunque ‘a starci ad ascoltare”. Un gran silenzio. “Però!?! …– conclude lui, come ragionando ad alta voce – Mah, il Mistero rimane sempre Mistero…”. Usciamo dal salone del teatro; fuori si commenta ancora l’incontro, quando… lo vediamo uscire passando di mezzo a noi, ancora lì numerosi. Ci saluta con un forte “Ciao”. Allora non ho resistito: “Giorgio – gli dico tra la folla mentre lui si gira – e se il Mistero decidesse di farsi incontrare come un uomo incontra un altro uomo…?”. Si piega su se stesso fregandosi le mani, poi, sorridendo fa: “ Fidelibus, me l’hai detta proprio grossa, ma…questa è proprio bella!”
Carissimo Giorgio, la certezza che tu sia ora nel cuore di quell’Essere/Mistero ce lo fa ringraziare per averti avuto come amico in questo tempo. Ora si compie tutta la verità della tua “Canzone dell’appartenenza”. Il noi che quel teatro ha sentito pronunciare in quell’incontro così insolito ci suona come un inizio del tuo definitivo Tu al Mistero presente: “Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi…”. Grazie Giorgio.

Chiedo scusa se parlo di Maria, ci son troppe cose che sembrano più importanti…Maria: la realtà

La morte di G. Gaber – per chi scrive e dopo una ventennale amicizia – anziché “ammortizzare” acuisce l’urto di provocazione che queste sue parole arrecano alla vita di tutti i giorni. Se la realtà è testarda, certamente Giorgio ha dato voce (parola/gesto) a questa “testardaggine” con tutta la sua persona. Ideologie e riduzionismi (tutti gli ismi compresi, come i tanti che in questi giorni di dolore si sono letti sui giornali) hanno cercato di soffocarla tacciandola – manco a dirlo – di pessim-ismo. Ma il laico Giorgio ha già reso il pari ai grandi “tromboni” e sacerdoti della cultura ideologica odierna; sì, il suo pessimismo – se ce n’è uno – riguarda proprio l’ideologia e i suoi maestri: m’interesso di qualsiasi ideologia ma mi è difficile parlare di Maria…la realtà. Lui non ci sta. L’ideologia non ripaga quanto a realtà (l’illusione è la sua moneta) sebbene possa temporaneamente ripagare in termini di successo, potere, denaro. E’ stato così per il Nobel Dario Fo, la cui riduzione ideologica di Gaber a “randellatore dei politici” non fa che perpetrarne lo stesso soffocamento di voce che egli imputa ai cosiddetti potenti. Il suo apprezzamento di Gaber è tipica filiazione dell’ideologia: mascherare il tradimento riducendo la ragione dell’apprezzamento alla propria misura preconcetta. Il Giorgio, persona ed artista, con perfetto sincronismo di gesto e parola dismette questo “costume” troppo stretto nella vita non meno che sul palcoscenico: m’interesso di politica e sociologia per trovare gli strumenti e andare avanti…ma mi è difficile parlare di Maria…Maria: la realtà. Il Signor G ci laicizza da quel subdolo sacerdozio ideologico.
“La mia generazione ha perso” non è espressione di rassegnazione quietista, è invece il giudizio sul fallimento inesorabile e sciagurato dell’ideologia: quella che ha esigito le sue vittime lungo tutto il secolo XX. Un giudizio tanto più realistico – quello del Signor G – quanto più emesso insieme al dolore di uno che ne ha vissuto l’esperienza diretta. Ma, se non è di Gaber il pessimismo, non lo è – a maggior ragione – il vittimismo: Maria: la realtà è la sua riscossa di uomo, dunque di pensiero. Affetti, denaro, carriera, successo, dolore e malattia gridano in lui l’umana sete di realtà – realtà nella sua origine (Maria) – in un’epoca che, spensieratamente, queste cose affida ai “fumi” di cartomanti, maghi e astrologi (fregasoldi) senza neppure il gusto di quell’ironia che, però, solo una grandezza può instaurare. In fatto di ironia ( ed autoironia) Giorgio è maestro…Forse è proprio questa la ferita che lui mi lascia (senza lasciarmi): non puoi voler bene ai genitori, alla tua donna, a colleghi o compagni di strada, alle cose che ti piacciono senza desiderare che tutto ciò sia sottratto al regno dell’apparenza e restituito alla sua identità, alla sua realtà originaria, soddisfacente: laddove sia strappato al dominio dell’illusorio fallimentare (cfr. “Far finta di essere sani”). Gaber ci ha riportati alla realtà restituendoci alla nostra sete di essere: vera soddisfazione; egli non conosce l’alternativa “o-tutto-o-niente” ma ne pone una più profondamente umana: “o-tutto-o-tutto” (“il nulla” non è interessante, è solo una tentazione che fa propendere alla finzione). Tutto, ogni cosa nell’aria e nella luce, sia restituito a Maria: la realtà nell’evidenza che debba essere felice…debba essere esistenza. Andiamo a riascoltare il monologo con canzone “La realtà è un uccello”: organizzatori e managers, conduttori televisivi o politici, calcolatori e progettisti, chiunque – nella nostra epoca telematica a tutti i costi – può trovarvi il pungolo provocatorio a riconoscere la realtà se la si vuol trattare senza omologarla come un informe software. Il suo impressionante impeto estetico porta, dritto, all’affermazione dell’essere: capire che non basta capire; ma…non è ancora capire; ma non basta capire: bisognerebbe ESSERE (“L’insolito commiato del Sig. Augusto”). Come dire, non basta essere “gaberiani”, bisognerebbe partecipare dell’essere cui Giorgio ha reso testimonianza: “Io, se fossi Gaber”. Maria: la realtà: è la semplicità dell’impossibile!

Una seconda provocazione dalla sua arte e dalla sua persona catalizza ogni nostro coinvolgente interesse, in impegno e dedizione nel trattare la realtà. Un sentimento qualche cosa come un ricordo ormai lontano per difendere quel mistero che era l’uomo… MISTERO: niente ermetismi né esoterismi; nulla attingi con soddisfazione (la ragazza, il tempo, il lavoro o i soldi) se non affermando il Mistero che è la realtà, quella realtà. Giorgio, disseppellisce questa parola dalla coltre di muffa in cui la mentalità oggi dominante l’ha avvolta. L’esautoramento del Mistero dai rapporti con cose e persone erige il fenomeno del “qualunquismo” a legge di ignoranza su tutto: il nuovo qualunquista guarda anche lui il presente, un po’ stupito di non aver capito niente. La realtà, in altre parole, non mi si rende presente se non dove è affermata la sua natura di Mistero; l’alternativa, perciò, non è la razionalità ma l’imbecillità, tipica solo degli “intellettuali” (cfr. il monologo omonimo). Gaber appartiene a quella schiera dei semplici che, solo, esistenzialmente sanno andare spediti al cuore misterioso di ogni cosa: l’uomo capisce tutto, tranne le cose perfettamente semplici (monologo “Giotto da Bondone”). Senza l’affermazione dell’insondabile Mistero non c’è conoscenza, non si dà ragione e, in buona sostanza, non è concepibile l’esperienza dell’amore (si vedano: “Dopo l’amore”, “Il dilemma”). Giorgio racconta delle cose e persone più care restituendole alla distanza di Mistero del loro stesso significato: non siamo invitati a privarcene ma a possederle veramente. Viene voglia di pensare così alla verginità: provate a riascoltare il brano “Buttare lì qualcosa”; c’è la nostalgia appassionata di un possesso di tutto con ultimo misterioso distacco dentro. Glielo dicevo, “è questa, in te, l’esperienza del senso religioso”: un senso quieto e religioso in cui ti viene da pensare…(“L’attesa”). Il conformista – com’è nel brano omonimo – sorge proprio sull’abolizione (o censura) dell’esperienza del Mistero che ogni incontro arreca. Quella dell’anticonformista non ne è che il scimmiottamento opposto ma speculare: la “moda” (cfr. “Quando è moda è moda”, “Si può”). Provare per credere. Ciò che mi colpiva sempre vedendolo sul palcoscenico era il rispetto, fisicamente percettibile, del mistero che la nostra presenza in platea costituiva per lui: qualcosa di sacro dinanzi a cui fermarsi o entusiasmarsi – ricordate i suoi salti bizzarri durante gli applausi? Ma era così anche nei dialoghi a cena: un testimone dell’invadenza del Mistero nei rapporti. Forse lo sorprendo e lo intuisco solo ora. Il Signor G, un “signore” anche per questo: non il propugnatore paladino del dubbio a-tutti-i-costi ma l’artista e uomo della discrezione del Mistero in tutto e con ciascuno.

Da ultimo, “Io come persona”. Realtà e Mistero trovano il loro massimo centro esplicativo in un punto: l’IO/PERSONA. “L’uomo che sto seguendo”, “La massa”, persino il buffo e ironico “Quello che perde i pezzi” ripropongono la centralità pluriforme dell’io come la suprema sfida al conformismo ed all’anticonformismo; stessa omologazione. Lui, restìo alle facili aggregazioni, si trova invece ad apprezzare il Meeting di Rimini come una sorprendente eccezione: “ho trovato gente – mi dice – che sta insieme senza svendere la propria testa…”. La sua stima, tenacemente positiva e drammaticamente vissuta, dell’IO/PERSONA resiste ad ogni riduzione univocamente sentimentalistica, volontaristica o razionalistica del mondo umano. L’attestazione più inequivocabile è ed è stata la SUA persona. In un’ epoca che oscilla tra gli emozionalismi introspettivi in stile New Age, i razionalismi esasperati degli “esperti” e i volontarismi farisaici di tanto mondo generosamente impegnato nel volontariato sociale (cfr. “Il potere dei più buoni”, “Il sociale”, “Buttare lì qualcosa”) egli si trova – con una compagnia piuttosto rara e per niente inflazionata – a riaffermare l’apertura di attesa dell’uomo all’Infinito e la nostalgia di un “noi” che, solo, può contrassegnare il cambiamento reale della persona: Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi. Queste sue “umanissime parole” non sono sfuggite all’altrettanto umana attenzione di uno come Luigi Giussani che ha parlato di “genialità poetica di Gaber”. Questa stessa genialità è foriera di una scoperta per me sconcertante: la sua continuità profetica con il dire e il fare di un uomo la cui voce di domanda non smette di risuonare sulla scena della storia come proveniente dal Mistero in carne ed ossa. Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?
Non posso ora ricordarti, Giorgio, senza la certezza pacificante del tuo presente incontro con quell’uomo e fuori dall’avvenuta assonanza nell’eterno della tua voce alla sua.
Grazie Signor G e…arrivederci!

GIUSEPPE FIDELIBUS


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