La sfida che si appresta a intraprendere l’autore con questa sua ultima fatica è quella delle più difficili e delle più avvincenti. Non è facile non ripetersi quando si è al terzo libro di poesia. Non è facile trovare nelle solite e già usate parole, nuove immagini e nuova musica per raccontare quel pezzo di strada che il poeta ha intrapreso da Il cambiamento epocale. «Per favore salvatemi / Allora, / Portatemi nell’orchestra / Degli strumenti muti / Che lasciano / Al Mistero la tessitura / Del senso / E dell’ordito» (Il sordo). La posta in gioco è quella di lasciare spazio ad un’altra voce che parla attraverso il silenzio del poeta, che, facendosi da parte, vuole sforzarsi di trovare nel suo respiro le parole più vere e autentiche per raccontare la natura di quel Mistero buono che sostanzia tutto.
La poesia è dominata da uno sguardo che cerca di narrare ciò che drammaticamente si scopre tra le pieghe delle proprie giornate, a partire, però, dalla scoperta della propria paradossale incapacità a parlare: «Arrivò il giorno che / I pesi / Immobilizzarono i miei passi. / Allora fui costretto / A sedermi / Sul bordo del fiume, / In silenzio» (Io parto…). Il poeta si appresta ad abbandonare tutte le misure e le strutture che ha faticosamente eretto durante il corso degli anni, scoprendosi così nudo, stanco, fiaccato, ma, al contempo, inaspettatamente in attesa di accogliere ciò che la vita può inoltrargli: «Allora più le trattenevo / E più m’ingombrarono / E piegarono, / E piagarono. / Finché compresi. / E le lasciai andar via tutte lungo il fiume» (Io parto…).
L’introdursi di questa nuova coscienza non nasce, però, da una rassegnata percezione di una vita oramai persa e vuota. Memore della novità introdotta da Il cambiamento epocale, egli cerca quel taglio di luce, quella prospettiva dalla quale assaporare nuovamente le solite cose. Una novità, però, che non si profila come un nuovo insegnamento, come un manuale di istruzioni per raggiungere un’esistenza felice e compiuta. Il nostro tempo è determinato dal «cedimento delle impalcature di valori» (Il cambiamento epocale), dalla caduta di quelle certezze su cui abbiamo fondato e snocciolato l’automatico meccanismo delle nostre vite. All’attestazione del cambiamento d’epoca, Campagnoli non risponde con la consueta e violenta retorica di un ritorno ad un mondo perfetto e dorato, ma desidera accettare la sfida lanciata dai tempi, salendo il crinale vertiginoso della categoria della possibilità secondo la quale “tutto può essere e tutto può non essere”.
Eppure, questo non delinea la figura di un poeta titanico che si erge sulle rovine del mondo. Egli preferisce sostare, fermarsi, lasciando alle cose la loro manifestazione. L’accettazione della caduta delle proprie certezze, l’abbandono del già saputo, permette all’autore di aprirsi alla possibilità che la vita stessa si riveli, che l’esistenza mostri la sua profondità: «Il limite / Del mio cuore / È / L’inizio / Del Tuo illimitato amore» (Signore…). Dal cedimento di tutti i valori passati e futuri, si genera un’attesa che scuote e spinge l’autore a vagliare tutto, in primis la portata radicale dell’annuncio cristiano: «C’è ancora una resurrezione, baby / C’è ancora? / C’è una resurrezione / Per le larve / Del nostro amore?» (Spiritual). Tutto viene passato al setaccio della propria esperienza, un’esperienza provata innanzitutto dalla sofferenza del nulla, ferita dal nichilismo che taglia le gambe raccontato a più riprese da Pavese. Ma è proprio in questa sofferenza, che emerge l’urto dell’urlo del poeta che il nulla non smorza: «Guardatemi / Sono un volto / Un cuore, come voi / Un bisogno d’affetto, / Alla mattina. / Spostatemi, prendetemi / Chiedete forte: / Di chi è questo cuore di plastica verde / Appoggiato sul tavolo / Fra i libri?» (Sala professori…). E ancora: «Perché allora sono tornato a vivere / Ogni volta?» (Mille volte avrei preferito morire…). La consapevolezza di vivere senza un linguaggio precostituito che spieghi e dipani il mondo, ha come primo effetto quello di mostrare l’irriducibile e profondo bisogno di senso. Campagnoli comprende che per rispondere alla sfida introdotta dal nichilismo deve innanzitutto spogliarsi di tutto per lasciar spazio alla venuta del Tutto che il grido del suo (e del nostro) cuore preannuncia: «Perché devo aspettare / Di sapere le ragioni / Quando la tua voce / Già la sento casa mia?» (Il sordo).
Il poeta si pone quindi in viaggio, si dispone ad errare come un bambino che non ha timore di sbagliare perché consapevole che nulla può sedare il gorgo del suo cuore: «Perché sono così tremendamente / Infelice? / È un abisso dilatato quest’urlo / E non vuole fermarsi / Non ha argini / Né tempo» (L’urlo). La sua partita si gioca nella coscienza di poter ricominciare, sempre, ad ogni istante perché teso a ricercare ciò che veramente soddisfa l’intimità di sé. Un destino simile a quello dei giovani che, più o meno coscientemente, ricercano un significato in tutto quello che fanno e conoscono.
È a partire da questo confronto tra i giovani e il poeta che vorrei sottolineare un aspetto che ha sicuramente determinato la genesi di questa terza silloge. Chi scrive questo articolo ha avuto il piacere e l’onore di accompagnare l’autore durante le presentazioni delle raccolte precedenti. Più volte egli ha sottoposto la sua opera al vaglio del pubblico e, in particolare, alla lettura e al commento di suoi giovani amici adolescenti. Ciò manifesta la disponibilità a un dialogo vero e scevro da qualsiasi retorica intorno al valore della poesia, poiché nasce dalla volontà di rimettersi al giudizio di chi si sta aprendo alla vita, di chi sta problematizzando tutto ciò che il passato e la tradizione gli offrono. Citando una conversazione fatta con l’autore, due sono i caratteri dell’adulto: il domandare incessantemente e la consapevolezza di sapere a chi domandare. Questo è ciò che accomuna l’adulto al giovane, un contatto e un confronto che ci permettono di intuire il senso della conquista dell’infanzia, nucleo segreto di questa raccolta.
I nostri tempi sono caratterizzati da un profondo sentimento dell’enigma a cui fa eco una precarietà pervasiva che inficia il nostro essere nel mondo. Se la poesia vuole ancora parlare all’uomo, deve riappropriarsi del senso nuovo di antiche parole così da ridisegnare quel volto buono e familiare proprio del mistero che caratterizza tutte le nostre giornate. Non abbiamo bisogno di nuove domande, ma di riscoprire il senso vivo delle parole grandi e antiche che già conosciamo. La poesia in tal modo si designa come un monito che ci spinge a superare ciò che già conosciamo e presumiamo di possedere, un obiettivo che richiede, però, una profonda e vera povertà di spirito, intravista a più riprese nel volto dei ragazzi che si sono coraggiosamente cimentati con la poetica dell’autore. Il tentativo di questa raccolta è quello di raccontare la portata e il senso radicale della promessa fatta dal Dio biblico all’umanità: «Anche se queste donne si dimenticassero, / Io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia, 49). Una dichiarazione che ci permette di iniziare le nostre giornate con la baldanza di fanciulli certi di essere amati e attesi a casa, dopo un lungo e stanco viaggio.
(dalla prefazione del libro)
Gabriele Codoni