La questione

La memoria per Etty Hillesum

19 Gennaio 2020
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Il 27 gennaio si torna a rifare memoria di quell’orrore che ha segnato la storia moderna, la tragedia della Shoah. Quest’anno è interessante affrontare con Etty Hillesum, giovane ebrea morta ad Auschwitz, il tema della memoria chiedendosi cosa significhi per l’oggi.

Etty Hillesum non scrive sui campi di sterminio, ma dal di dentro, a contatto quotidiano con la sofferenza, con lo sguardo che trafigge gli occhi dei carnefici. E così dal di dentro dello sterminio che ha colpito in modo tanto assurdo il suo popolo propone un modo del tutto nuovo di vivere la memoria, sfidando anni e anni in cui dominante è stata la forma ideologica della memoria, ovvero una memoria che esclude colui che guarda, analizza e descrive. In questi anni tutte le forme di memoria, quelle centrate sul male come quelle che hanno fatto emergere la testimonianza dei giusti, hanno corso il rischio di prescindere dal soggetto che fa memoria. Etty Hillesum ci propone invece il vero modo di far memoria, quello che fa fare al soggetto un lavoro su di sé. Diari e Lettere di Etty Hillesum sono improntati da questo sguardo vivo e originale, ciò che lei vede riecheggia in sé e le fa fare un percorso in cui trova se stessa. E’ un percorso determinato, instancabile, drammatico, non una linea retta, ma sghemba, un procedere con alti e bassi in una direzione chiara, un andare verso il proprio io, una scoperta entusiasmante. Fino a dire che “non sono i fatti che contano nella vita, ma ciò che grazie ai fatti si diventa”. Questa è la memoria che Etty Hillesum ci propone di ritrovare, la memoria come lavoro su di sé. Per questo con lei si può dire ciò che ha scritto il 10 luglio 1942: “Una volta è un Hitler; un’altra è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un caso è la rassegnazione, in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima”. Il 15 luglio 1942 Etty scrive sul suo Diario: “Del resto, sono nelle mani di Dio. E lo è anche il mio corpo con tutti i suoi piccoli dolori. Quando mi ritroverò a terra distrutta e stordita, bisognerà che in un qualche angolino di me stessa io sappia che mi rialzerò un’altra volta, altrimenti sarò perduta. Vado per una strada e ho una guida per percorrerla. Ogni volta ritrovo la mia memoria e allora so, meglio che mai, come debbo comportarmi – o piuttosto, so che lo saprò, in ogni circostanza. «Cara, voglio continuare a pregare». Gli voglio così bene. E anche oggi mi chiedo se non sia più facile pregare da lontano e continuare a vivere interiormente insieme con lui, che vederlo soffrire da vicino. Sarà come sarà, il mio unico rischio è che il mio cuore si spezzi per l’amore che provo per lui.” Per Etty la memoria è dinamica, non è solo un contenitore che raccoglie dati, ma ancor di più indica la strada da percorrere, il percorso da intraprendere che il cuore suggerisce all’uomo.

Ci sono due lettere che ci comunicano in modo significativo lo sguardo che Etty Hillesum aveva nei confronti dell’orrore nazista: la prima è A due sorelle dell’Aia ed è del dicembre 1942, la seconda è A Han Wegerif ed è datata 24 agosto 1943. Nella prima viene descritto il campo di Westerbork, nella seconda viene raccontata la partenza di un treno per Auschwitz. In entrambe le lettere colpisce l’attenzione alle persone che Etty ha, un’attenzione che origina da una affezione alla loro umanità. Così Etty ci comunica cosa significhi fare un lavoro su ciò che si vede, su ciò cui si partecipa, su ciò che accade: significa viverlo dentro il proprio io, portare ciò che porta l’altro. Nella parte conclusiva della Lettera A due sorelle dell’Aia esplicita la modalità di questo suo lavoro scrivendo: “Il dolore umano di cui siamo stati testimoni in questi ultimi sei mesi, e al quale assistiamo ancora ogni giorno, è più di quanto un individuo sia in grado di assorbire in un periodo così limitato. Del resto, lo sentiamo dire quotidianamente intorno a noi, e in tutti i modi immaginabili: «Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più in fretta possibile». E questo mi sembra molto pericoloso. Certo, accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili. Ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante. Io credo che per ogni evento l’uomo possieda un organo che gli consente di superarlo. Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nella nostra mente e nel nostro cuore, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione –, allora non siamo una generazione vitale. Certo, non è così semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione –, allora sarà troppo poco. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena, e in circostanze che diventano quasi altrettanto difficili. E forse allora, sulla base di una comune e onesta ricerca di risposte chiarificatrici su questi avvenimenti inspiegabili, la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti. Per questo mi sembrava così pericoloso sentir ripetere: «Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa miseria». Come se il dolore – in qualunque forma si presenti a noi – non facesse ugualmente parte dell’esistenza umana.”

Qui Etty dice con chiarezza e in modo esplicito che fare memoria non è solo ricordare dei fatti, ma trovare dentro di sè un nuovo senso delle cose che la violenza e l’orrore razziale hanno tentato di cancellare dalla vita degli uomini. Qui sta il compito della memoria, Auschwitz è il prodotto più terribile del nichilismo, l’uomo di fronte a questo non ha solo da salvarsi o sperare che tanto orrore non torni più, c’è un compito più decisivo e che attiene totalmente all’umano, ridare senso alla vita e uno sguardo vero ad ogni essere umano.

Per questo la domanda prima della memoria è quale senso ha vivere, a questo bisogna rispondere guardando nei bunker della morte, e rispondendo a questo trovare uno sguardo vero all’altro.

Etty ci comunica questo sguardo in molti modi. Ne trascrivo alcuni:

«Tutte le catastrofi vengono da noi stessi. Perché c’è la guerra? Forse perché ogni tanto ho l’inclinazione a trattar in malo modo il prossimo. Perché io e il mio vicino e noi tutti non abbiamo abbastanza amore nel profondo, eppure possiamo sconfiggere le guerra e persino tutte le sue escrescenze interiori, ogni giorno, ogni istante, sprigionando l’amore che abbiamo dentro, in modo da concedergli una chance per vivere».

«È uno degli odierni problemi: l’odio feroce per i tedeschi avvelena l’animo. Frasi come: “affoghino tutti, canaglie, muoiano col gas“, entrano ormai nel nostro quotidiano conversare; talvolta capita di non sentirsi più di vivere in questi frangenti. D’un tratto, qualche settimana fa, è emersa una riflessione liberatrice, come un esitante e tenero filo d’erba in un deserto d’erbacce: se anche non ci fosse che un solo tedesco rispettabile, questi meriterebbe di essere difeso contro quell’orda di barbari e, grazie a lui, non avremmo il diritto di rovesciare il nostro odio su un popolo intero».

«La miseria qui è veramente terribile, però, di sera tardi, quando il giorno è profondamente scomparso dietro di noi, mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato con passo alacre, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non posso farci niente, è così, è di una forza elementare – e questa voce dice che la vita è splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo del tutto nuovo, ad ogni nuovo atto di crudeltà dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà, conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire molto, ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, sia il corpo sia l’anima, soprattutto l’anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire una nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch’io la mia piccola parola».

“E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sè: e lavorare ‘a se stessi’ non è proprio una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di trasformarlo in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo -. È l’unica soluzione possibile… Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra.”

“Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti. E assenza di odio non significa di per sé assenza d’un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più facile e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale.” ( Lettera A due sorelle dell’Aia)

Da questi giudizi di Etty Hillesum viene un’indicazione chiara per il Giorno della Memoria, quella di combattere inanzitutto il male e l’odio in sè così che si possa ritrovare quell’amore che vive dentro il cuore e che nulla può sopprimere perchè gli appartiene originariamente.

Per questo possiamo far nostra la certezza con cui Etty conclude la lettera A due sorelle dell’Aia: “E credo anche, forse ingenuamente ma con ostinazione, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera.”

Gianni Mereghetti


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