La questione

Mettersi in gioco

14 Novembre 2021
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Al termine del Tour dantesco sui passi di Marco Martinelli, un giudizio sull’esperienza di questi mesi con l’iniziativa itinerante intitolata “Mi ritrovai. Dalla selva oscura al Paradiso”, un’azione corale dentro la Divina Commedia con una chiamata pubblica al Meeting di Rimini per poi fare tappa a Verona, a Milano, a Cesena e a Palermo.

Dopo aver attraversato come tutti le domande e le paure che l’emergenza sanitaria ha fatto esplodere nelle nostre vite, vale forse la pena cominciare a riflettere su come questa esperienza possa indirizzare anche il nostro lavoro di quest’anno, quella ricerca di bellezza e di speranza che, nella sua forma sistematica e quotidiana, chiamiamo cultura.

Per farlo proviamo a partire dal lavoro che abbiamo condiviso su Dante, inaugurato al Meeting di Rimini, e che si è articolato in cinque eventi diversi in altrettante città.
Il progetto aveva un intento preciso: rileggere e ‘guardare’ Dante non come qualcuno da celebrare oppure da commentare sapientemente o anche cristianamente, ma come un compagno di strada, che dalla sua selva oscura ci facesse accorgere della nostra, che portasse in dote a noi e a tutti gli uomini la certezza che da questa selva si può uscire, che non si tratta di un buco terribile e insensato, come a tanti sembra la vita oggi. E dunque, fare noi stessi esperienza del suo ‘cammino’.
Nel corso dei mesi siamo stati costretti a cambiare tanto, a modificare la struttura del progetto, soprattutto nei suoi aspetti più teatrali, ma abbiamo sempre voluto preservare quell’intenzione iniziale che così è diventata concreta per noi e per il pubblico, sul palco e anche in piazza.
È successo infatti che per gridare le terzine in mezzo alla gente abbiamo dovuto abbandonarci, fidarci, noi per primi seguire le parole di Dante, smettere di pensarci come organizzatori, accettare la nostra voce, la voce di chi ci era vicino, in un certo senso accettarci come siamo (che è appunto la selva oscura di ognuno).

Don Giussani ce l’ha insegnato, l’esperienza non è appena quello che accade ma il momento nel quale ciò che accade viene giudicato o diventa giudizio
; un momento di tempo e di luogo nel quale risuona la nostra umanità, ragione e affetto insieme. Così anche la pandemia è stata esperienza laddove ha costretto noi a riguardare la vita, ad accorgerci che noi eravamo i primi a confidare in noi stessi e nei nostri schemi, a ridire tutta la domanda e il desiderio e anche la paura che ci siamo riscoperti addosso, cercando chi potesse accompagnarci in questo cammino.

L’analogia con il nostro lavoro di ‘produzione culturale’ è evidente: nessuno di noi può più prescindere da questo lavoro personale, dalla coscienza che il nostro compito non è fare da intermediari tra qualcuno che porta delle risposte intelligenti o cristiane e un pubblico ‘da istruire’ e noi e i nostri Centri non siamo appena dei ‘portatori di concetti’. Che insomma il giudizio non è solo la spiegazione intelligente delle cose, ma appunto l’esperienza di esse.

C’è dunque una implicazione che ci viene richiesta, che porta il valore dell’affetto alla nostra umanità e a quella di coloro che incontriamo, che siano gli esperti cui chiediamo un aiuto o il nostro pubblico.
C’è un punto di rischio, di compromissione ultima, un punto in cui il giudizio attraversa la nostra vita e così diventa un’altra cosa, la nostra persona stessa diventa punto carnale del giudizio senza il quale tutto resta una opinione, solo un parere. Per dirla con Prades, la nostra attività non può essere “un ventriloquio”.

Questo, l’inizio della sua lezione al Meeting.
“Kierkegard s’interrogava circa la comunicazione della verità. Capiva che la prima condizione per una comunicazione del vero è la persona che la pronuncia. La verità non si trasmette attraverso il ventriloquio. Esige una persona che si giochi nel comunicare l’avvenuta comprensione di quella verità. Ecco subito un primo significato del valore dell’io.
Kierkegard insiste sul bisogno di far emergere le riflessioni su ciò che è vero dalla vita di un uomo vivo, da un io. Serve dunque un confronto con la verità della propria vita e non solo l’affermazione di verità teoriche che non vengono messe al vaglio dell’esistenza.
Il compito della vita è questo continuo appropriarsi o riappropriarsi del vero che mette in gioco la persona che fa emergere l’io. Senza mettersi in gioco non ci sarebbe neanche piena comunicazione della verità ad un altro.”

Questo è il compito, la domanda che ci rilanciamo. Questo il lavoro nel quale dobbiamo coinvolgere i nostri amici che fanno con noi il centro culturale. E ognuno, in questo percorso leale con la propria domanda, sceglierà poi con i propri amici le forme che più gli parranno appropriate.

Ci siamo ritrovati insieme al pubblico a gridare come dei bambini le terzine di Dante. Ci abbiano giocato passione e insicurezze, dignità e giudizio. Insieme agli altri incontrati nelle piazze non guarderemo più Dante come prima, e un po’ anche la nostra vita e il nostro impegno.
(Roberto Gabellini)

Leggi l’intervista a Marco Martinelli di Riccardo Bonacina su Clonline.org


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