
“Quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca”: così si esprimeva Papa Francesco il 21 dicembre 2019 di fronte alla Curia vaticana. La sua presa d’atto del momento presente come di un momento di rottura ha segnato l’urgenza che lo muoveva, sempre alla ricerca di modi nuovi di annunciare il Vangelo e incontrare l’altro. Partendo da questa consapevolezza, crediamo sia possibile sottolineare alcuni aspetti che hanno offerto spunti per un lavoro culturale, fra le innumerevoli sfaccettature, a volte spiazzanti, che hanno caratterizzato il papato appena concluso.
Innanzitutto lo stile del papato, con l’importanza dei gesti, che Francesco da subito ha usato per comunicare, ancora più che con la parola. Come dimenticare le corone di fiori a Lampedusa e a Lesbo, gli abbracci ai malati, l’incontro a Cuba con il Patriarca Kirill, la firma del documento sulla fratellanza con l’imam di al-Ahzar Ahmad al-Tayyib, le interviste a Scalfari, l’apertura dell’anno Santo 2015 a Bangui, i viaggi in Iraq e in Terra Santa, la camminata solitaria in piazza San Pietro durante il primo lockdown, le numerose telefonate dal Vaticano? Attraverso quei gesti, alcuni difficili perfino da ipotizzare, Papa Bergoglio ha mostrato al mondo i contenuti che prendevano forma nelle sue riflessioni. Prima provocazione per chi cerca di realizzare una proposta culturale come cristiani: il pensiero, la parola, il discorso non muovono nulla nella persona se non trovano una carne in cui abitare. Ogni azione porta un significato: è letteralmente un gesto, come dice l’etimologia latina (gero = portare). E il gesto che compie la persona comunica, provoca, educa, al di là della parola in senso stretto.
Altro aspetto cruciale è la preferenza per un pensiero aperto e dialogante, cosa che ha fatto sorgere domande in tanti, anche all’interno della Chiesa, a volte scandalizzando. Abituati all’idea che il Papa dovesse esclusivamente dire qualcosa di definitivo, ecco un Papa che sembra mettersi di fianco al suo interlocutore, ponendo questioni a volte molto aperte, lasciandosi provocare e accettando anche di trovare punti di incontro provvisori, che impongono ulteriori passi di approfondimento. Come amava ripetere, quella Chiesa “in uscita” da lui desiderata, doveva essere il soggetto che “avvia processi piuttosto che occupare spazi”, provocazione fortissima a riconoscere la grande tentazione dell’autoreferenzialità e ad allontanarsene. Per cosa ci è dato il tesoro della fede e della tradizione? Per essere comunicato e giocato nel mondo, ma non solo: Francesco sembra suggerirci che attraverso questo “trafficare” non solo incontreremo davvero l’altro, ma soprattutto che scopriremo nuovo e convincente ciò che pensavamo di conoscere già. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare le lacrime di commozione di Eugenio Scalfari alla fine del loro ultimo incontro.
Molti commentatori si soffermano sulla preferenza per gli ultimi di Francesco. Dal punto di vista culturale, una sua intuizione fa andare oltre alla facile riduzione pauperistica. Come più volte ha sottolineato, “si comprende la realtà solo se la si guarda dalla periferia”. Dunque perché andare agli ultimi? Non innanzitutto per una preferenza “politica”. Il suo andare alle periferie dell’umano ha un valore sì “strategico”, ma soprattutto come metodo per conoscere più in profondità la realtà.
Si capisce allora l’insistenza rispetto alla ricerca della pace. Pace intesa come rapporti buoni, fondati sul riconoscimento della dignità di ogni vita umana, sull’allontanamento della violenza, della menzogna, dell’invidia. Senza questa immedesimazione continua nell’ultima periferia dell’umano, quella dove vivono i più fragili, gli “scartati”, è impossibile comprendere di quale pace abbiamo bisogno. Il primo a introdurre questo sguardo sugli ultimi è stato proprio Cristo. È questo sguardo, suggerisce Papa Bergoglio già nel suo motto “miserando atque eligendo”, che permette, là dove siamo, di costruire possibilità di pace vera. Ma come imparare questo sguardo? Solo accettando lo sguardo che il Signore ha su di noi. “Essere cristiano è un incontro. Siamo cristiani perché siamo stati amati e incontrati e non frutti di proselitismo” (Marocco 2019). È quell’incontro che fonda una cultura nuova ed è possibile oggi: “quando noi andiamo verso di Lui, Lui ci sta già aspettando. Lui è già lì: il Signore ci primerea, ci anticipa, ci sta aspettando: pecchi e lui ti sta aspettando per perdonarti. Lui ci aspetta per accoglierci, per darci il suo amore, e ogni volta la fede cresce. Qualcuno preferirebbe studiarla, è importante, ma quello che è più importante è l’incontro con Dio perché è Lui che ci dà la fede” (ai Movimenti Ecclesiali, 18 maggio 2013).
A noi dunque la sfida di essere più umili e docili a quello sguardo che ci raggiunge oggi attraverso la Chiesa, vera sorgente di cultura.
Nicola Sabatini, Centro culturale Massimiliano Kolbe di Varese