Le domande di Bruce Springsteen

Gennaio 6, 2017
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Bruce Springsteen è un esploratore. Gli spazi che da decenni va percorrendo con la sua musica hanno l’estensione geografica degli interi Stati Uniti e la profondità del cuore dell’uomo. Sfogliando le 500 pagine di Born to Run (Mondadori), la sorprendente e imperdibile autobiografia dell’icona del rock, si scopre che dagli anni Sessanta il Boss non fa che cercare di rispondere a due domande: “Cosa significa essere un americano?” e “Chi sono io?”.

Le risposte al primo interrogativo le ha cercate nel continuo e irrequieto attraversamento in auto e su due ruote del continente americano, da Est a Ovest e viceversa, senza pace, senza quiete, come un forzato del moto perpetuo. Un Jack Kerouac perennemente “on the road”, segnato dalla maledizione dell’irrefrenabile bisogno di un perenne “run”. Un animo del New Jersey in fuga da se stesso verso la California, condannato a sentire nostalgia di Atlantico ogni volta che metteva radici sul Pacifico e ad aver voglia del West non appena tornato sulla costa orientale degli States.

Ma anche un esploratore affascinato delle scoperte fatte in ogni angolo del Paese in decenni di pendolarismo East-West: non a caso lo Springsteen autobiografico paragona il proprio sodalizio musicale con il compagno di band Steven Van Zandt a quello degli esploratori Lewis e Clark, l’incarnazione dello spirito pionieristico a stelle e strisce. Insolito punto di riferimento per una star del rock.
Fermarsi al moto geografico di Springsteen però non basta. Da ormai sessant’anni, cioè fin dall’infanzia nella Freehold operaia del New Jersey da cui non si è mai veramente allontanato, l’esplorazione reale a cui si dedica è quella degli interrogativi del cuore dell’uomo, partendo dal suo. Nel libro con cui ha deciso da raccontarsi fino in fondo e senza veli, Springsteen svela la propria fragilità, le ricorrenti crisi di depressione, il rapporto con gli psicofarmaci, il complesso legame mai risolto con un padre amato-odiato e soprattutto le grandi domande irrisolte che porta con sé da decenni, come ciascuno di noi. Prima tra tutte: “Io chi sono?”

Le sue storie, la musica che le accompagna, i personaggi dei brani che dagli anni Settanta hanno conquistato il mondo, sono il frutto di questa miscela assai più complessa di quello che fino a ora avevano intuito fan e recensori. Spostandosi in orizzontale lungo l’America e in profondità dentro l’animo umano, Springsteen si rivela non solo Kerouac, ma anche erede di scrittori da lui amati come Flannery O’Connor e lo Steinbeck di Furore e di Viaggio con Charley.

Si possono considerare eccessivi i paragoni letterari per chi in fondo fa “canzonette” e si esibisce saltando su un palco. Non è così. E non lo è non solo perché uno dei riconosciuti maestri di Springsteen, Bob Dylan, con le stesse canzonette ha appena vinto un Nobel per la letteratura. Ma anche perché da tempo l’ambiente accademico americano ha riconosciuto nell’ex ragazzo del New Jersey quello che resterà come uno dei propri grandi poeti contemporanei. Leggere, per credere, Bruce Springsteen’s America del professor Robert Coles di Harvard.

L’interrogativo irrisolto di Born to Run (ma esiste una vita di cui si possono dire risolti tutti gli interrogativi esistenziali?) è quali risposte Springsteen abbia trovato alle sue domande. Che è successo dal 1975 a oggi, dopo aver detto alla Wendy di Born to Run “babe I want to know if love is real”? Cosa ha scoperto su se stesso, e su di noi, l’uomo che per decenni ci ha accompagnato “down to the river”?

Springsteen, per fortuna, non si arroga il diritto di avere risposte ma si mostra per quello che è, un uomo che viaggia verso i 70 e ha ancora aperti molti interrogativi della sua adolescenza. Ai milioni di persone che lo hanno ascoltato dal vivo per anni, alle decine di milioni che ancora lo ascoltano in auto o sull’iPhone, ha fatto un dono grande: con le sue canzoni non ha preteso di far “conoscere” qualcosa, ma di farci “ri-conoscere” nei suoi personaggi, lasciando a noi il compito di fare i conti con l’immagine che ne emergeva.

Quanto a lui, il ragazzino figlio di un’italiana e di un irlandese cresciuto imbevuto dal cattolicesimo spesso asfissiante degli anni ’50 pre-Concilio, non fa mistero di aver abbandonato da tempo la speranza di trovare in una religione le risposte che cerca. Ma per chiudere la sua autobiografia e tirare le somme di una vita di esplorazione, ha scelto di recitare come una canzone l’intero Padre Nostro. Un gesto in cui ognuno si può “ri-conoscere” come meglio vuole.

Marco Bardazzi


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