Tatjana Kasatskina: Il bello della cultura

Dicembre 6, 2012
Featured image for “Tatjana Kasatskina: Il bello della cultura”

Proponiamo il testo della conversazione di Tatjana Kasatskina con alcuni responsabili dei centri culturali italiani in occasione del Meeting di Rimini 2012. Le è stato chiesto che cosa intende per cultura e quali indicazioni può suggerire per il lavoro dei centri culturali. In particolare le si è chiesto un giudizio sull’idea che la cultura e le sue realizzazioni siano qualcosa che incide non solo a livello intellettuale ma innanzitutto nel modo in cui un essere umano guarda e percepisce il mondo. Tat’ jana Kasatskina sarà in Italia a Gennaio per una serie di conferenze. ”

“Originalmente la cultura non è nata come una cosa autonoma, dobbiamo tenerlo ben presente: né la cultura né l’arte sono sorte con la qualità di poter essere indipendenti e non hanno avuto una loro esistenza come entità autonome per moltissimo tempo.
L’arte nasce come arte all’interno del tempio, e se osserviamo il periodo pre-cristiano capiamo una cosa stupefacente: le statue antiche che ancora oggi ammiriamo sono così impressionanti proprio perché non sono state create come opere d’arte aventi in se stesse il proprio senso, ma come opere che avevano un fine molto pratico. Per i greci, il “dio” era un principio dinamico, era immanente al cosmo ma, al tempo stesso, era qualcosa che si trovava nell’impossibilità di entrare in contatto con l’uomo perché l’uomo e questo principio dinamico erano collocati in spazi lontani. C’era quindi la necessità di creare un mediatore, serviva uno spazio perché loro potessero entrare in rapporto, un corpo attraverso cui quel principio potesse comunicare con l’uomo.

Cabine telefoniche. Perciò quelle stupende e mirabili statue di marmo – e non è mai più stato creato niente di altrettanto bello – erano come delle “cabine telefoniche” in cui si entrava per parlare con qualcuno. Cioè, l’arte non è mai stata creata per la bellezza fine a se stessa. Anche i gioielli non venivano indossati “per bellezza” ma la gente li portava perché ogni metallo o pietra aveva il suo significato, la sua funzione specifica e normale: erano come dei piccoli “telefoni cellulari”, servivano per comunicare con qualcuno. Una determinata pietra era portatrice di una certa forza – per esempio, poteri curativi – e fungeva da intermediario, permetteva all’uomo di ricevere questa forza: attraverso la pietra, quei poteri entravano in lui.
Insomma, l’idea di una cultura autonoma è molto tardiva e l’umanità è vissuta in tutt’altro modo per secoli. Noi ora ci troviamo a vivere in un momento di atomizzazione globale del mondo. È così da tre secoli, ma nella totalità della storia tre secoli sono un periodo brevissimo… E infatti noi ricordiamo ancora che in realtà la cultura e l’arte hanno un senso non in se stesse e per se stesse, ma legate a qualcosa d’altro; ricordiamo, in qualche modo, che sono degli intermediari, dei mediatori che permettono che si stabilisca un contatto tra l’uomo e altre forze.
È molto interessante che nel XIX secolo, quando questo significato dell’arte era già uscito completamente dall’orizzonte della coscienza comune (non dico che nessuno lo ricordasse, perché nella storia ci sono sempre state persone che l’hanno ricordato; ma parlo proprio della coscienza, della mentalità comune), ci si è messi ad attribuire all’arte delle nuove funzioni, a inventarle, a insistere, ad esempio, sul fatto che l’arte doveva servire la società, rispondere ad esigenze sociali, oppure che doveva insegnare, edificare o propagandare idee sociali. Non appena l’arte ha smesso di essere intermediario fra Dio e l’uomo, ha rifiutato di compiere il suo servizio più alto, hanno cercato di darle da fare un qualche piccolo lavoretto domestico. In questo tentativo di adattamento c’era un istinto molto giusto, c’era il ricordo che l’arte era fatta per qualcosa, che serviva a qualcosa, che era impossibile servisse solo a se stessa perché, immancabilmente, conduceva da qualche parte e, immancabilmente, aveva uno scopo. Questo è davvero qualcosa che non dimentichiamo mai, che almeno nel subconscio ricordiamo sempre, ma varrebbe la pena riportarlo alla luce. Se l’uomo sarà cosciente del fatto che, davvero, quando guarda un’opera d’arte non sta facendo qualcosa di innocuo e inoffensivo perché in ogni caso sta entrando in rapporto con qualcosa – c’è un’arte che ci mette direttamente in rapporto con l’autore, c’è un’arte che ci porta verso l’alto e un’arte che ci porta insistentemente verso il basso -, capirà che il rapporto con l’arte è sempre un’avventura immensa e che il fatto che noi in questa avventura ci sentiamo al sicuro è un grande errore. Ed è un errore molto pericoloso, perché se non sappiamo che in quel momento noi stiamo entrando in contatto con qualcuno rimaniamo aperti a un’influenza esterna senza nemmeno sapere se la vogliamo o no; se non sappiamo che c’è non possiamo neanche opporci ad essa.
Ecco, io penso che quello che adesso dovremmo educare nell’uomo sia questa coscienza, questo diverso modo di entrare in rapporto con l’arte. E mi sembra che oggi le persone siano pronte per questo, che se ne rendano sempre più conto e siano disponibili. Basterebbe solo dare una piccola spinta perché questa coscienza diventi coscienza comune.
La cultura, inoltre, non può essere ridotta solo all’arte ma è qualcosa da cui non possiamo uscire – e che, indubbiamente, non si limita a quello che accade negli “eventi culturali”. La cultura è fatta di strade che l’uomo ha davanti per poterci camminare sopra senza pensarci tanto.

Dio e la formica. L’uomo è una creatura molto strana, è una creatura che non ha nessun istinto. A noi piace molto dire che abbiamo fatto l’una o l’altra cosa “per istinto”, ma in realtà noi non abbiamo istinto, perché l’istinto è quel programma di comportamento assai complesso che permette agli animali di fare cose incredibili: un uccellino che non ha mai migrato dal suo nido estivo a quello invernale, ad esempio, saprà trovare la strada anche se si troverà da solo e non potrà seguire gli altri uccelli, e a volte sono migliaia di chilometri. L’istinto è quello che permette all’ape di costruire le cellette del suo alveare e alla formica il formicaio – il formicaio è una struttura molto complessa, ma la formica non può ripensarci e decidere di costruire un alveare, o viceversa -, mentre l’uomo è assolutamente privo di queste strade già prefissate.
Questa è proprio la sostanza della presenza dell’immagine di Dio nell’uomo: la sua libertà. L’uomo non ha un programma di comportamento, deve scegliere ogni volta. E la cultura esiste per semplificare le sue scelte. La cultura è fatta di canali segnati dalle generazioni precedenti su cui noi possiamo camminare quasi senza pensarci. E questo, da un certo punto di vista, ci semplifica incredibilmente la vita, perché ne risulta qualcosa di simile all’istinto dell’ape (noi sappiamo che in alcuni momenti dobbiamo fare questo o quello e così ci evitiamo molti ragionamenti); ma, dall’altro, ce la complica anche terribilmente, perché col tempo questi canali culturali si trasformano in qualcosa da cui non possiamo uscire. Diventano qualcosa che ci impedisce di scegliere. E allora siamo obbligati dalla nostra essenza di uomini liberi a spaccare i canali vecchi per proporre le nostre vie.

Scelta nuova. Non è difficile notare che nel corso di molti secoli l’arte sostanzialmente ha parlato sempre di cose molto simili, ma ci sono delle ragioni per cui bisogna sempre riparlarne e riparlarne usando la lingua della nuova generazione. È un meccanismo insito nella cultura che serve a impedire che si pietrifichi, che si cristallizzi. È una nuova scelta, ed è quello che permette che la cultura ridiventi una regione della nostra esperienza viva. E questa capacità di rinnovamento è la capacità che possiede l’idea di presentarsi con un corpo nuovo, di trovare una forma nuova.
Per questo motivo, a me sembra che il nostro compito – il compito di tutte le persone che lavorano nel campo della cultura – sia quello di trovare oggi persone che sappiano parlare con una lingua nuova di queste cose antichissime. Adesso è più semplice perché c’è internet che permette a tutti, indistintamente, di presentare le proprie opere d’arte o creazioni letterarie agli altri, opere che altrimenti non arriverebbero mai agli editori e che, a volte, possono anche essere geniali. Certo, questo può voler dire cercare una perla in un mare di spazzatura… Ma può capitare che si trovino perle preziose!
Un centro culturale, per dire, potrebbe diventare un luogo dove chi ci va può portare qualcosa di nuovo, qualcosa di sé; magari, che so, tramite concorsi di opere su un certo tema, ad esempio, su temi ampi tipo quello del Meeting di Rimini; e tra le opere d’arte che vi verranno proposte potrebbe esserci, in mezzo alle cose da scartare, qualcosa di buono…
Questo andrebbe anche nella linea di un altro bisogno fondamentale che nella nostra cultura sta diventando una grave mancanza: hanno tutti bisogno di essere ascoltati. Potrebbe essere come una svolta nuova: invitando la gente a partecipare alla vostra attività non solo come ascoltatori ma anche con la loro creatività attiva, potreste diventare degli intermediari – come le statue dell’antichità -, degli strumenti attraverso cui gli uomini possono comunicare tra loro.
Sostanzialmente si tratta di fare lo stesso lavoro del filologo: un filologo legge, legge e rilegge la stessa cosa tante volte finché il testo non rivive in lui, finché non arriva a dire: «Come sono stato stupido, era così semplice, era evidente!», e allora sarà anche in grado di fare vedere quell’evidenza agli altri.
Noi dovremmo ascoltare così ogni persona che viene da noi e ci parla, perché in quello che ci viene detto c’è sempre un senso, mentre molto spesso noi non lo ascoltiamo fino alla fine perché abbiamo fretta o ci sembra che ce l’abbiano già detto mille volte. Così noi stessi ci ergiamo a parete divisoria fra noi e gli altri. Se, invece, imparerete a essere aperti, allora tutto vi si spalancherà davanti. Solo che a volte questo incontro è doloroso perché non siamo capaci di comportarci adeguatamente e ci pungiamo a vicenda, ci feriamo, sgomitiamo. Quindi è un compito difficile, perché quello che le persone ci dicono ci può dare fastidio in vari modi.

Inferno e paradiso. Mi capita di parlare a responsabili di centri culturali. In questi casi, dico: probabilmente questo è il servizio che siete chiamati a prestare. Siete chiamati ad aprirvi, ad allargarvi; e così, più voi vi aprirete, meno vi faranno male, perché tutto questo dolore nasce dalla ristrettezza, dall’angustia, mentre più ci si apre più inizia un rapporto umano normale.
Se nasce questa normale comunicazione tra uomini – normale non nel senso di una “media statistica”, ma nel senso di come dovrebbe essere idealmente -, allora si creerà immediatamente il paradiso. L’inferno è l’isolamento, la separazione tra gli uomini, la non comunicazione. Ma il paradiso è proprio questo rapporto di comunicazione normale che si ristabilisce tra gli uomini.”


Condividi: