Ue, i padroni della storia di Davide Prosperi

Aprile 1, 2025
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La lettera a Repubblica del 16 marzo scorso di Davide Prosperi e la risposta ad Antonio Polito sul Corriere della Sera del 29 marzo ci rimandano all’urgenza del compito che il papa chiede ad ogni cristiano. «Vi invito ad accompagnarmi nella profezia per la pace!». Un compito nel quale ci aiutano e ci guidano nel nostro giudizio sulla guerra, sul riarmo, sul ruolo e la vocazione dell’Europa, le parole di don Giussani: «solo la coscienza di non essere noi i padroni della storia può aprire uno spiraglio realistico e profondo alla vera pace».

Una strada realistica per la pace

Le guerre, la corsa agli armamenti, il dibattito che incendia il Vecchio Continente e non solo. «L’Europa deve decidere se essere fedele alla sua vocazione oppure contribuire all’atmosfera conflittuale che sembra prevalere su tutto». La lettera di Davide Prosperi al quotidiano la Repubblica

Caro direttore,

mi spinge a scriverle la drammaticità del momento storico nel quale ci troviamo a vivere. I conflitti armati aumentano in molte parti del mondo, fin dentro all’Europa, dando l’impressione che stiano crollando quei pilastri su cui poggia la convivenza civile, lo sviluppo economico-sociale e quindi la possibilità di uno sguardo positivo sul nostro futuro. Istituzioni, governi, soggetti sociali e culturali di ogni ordine e tipo, purtroppo anche alcuni esponenti della Chiesa, appaiono talvolta smarriti e contradditori nei loro giudizi (e nel manifestarli). Lo scenario pone diversi interrogativi. Non sono un esperto di geopolitica, tuttavia in quanto europeo e in quanto cristiano, sento la responsabilità di dare un contributo di riflessione, frutto di un confronto interno al Movimento di cui faccio parte, in merito alla discussione in corso sulla difesa comune europea.

Al di là delle cifre che già oggi vengono spese dagli Stati dell’UE, una difesa veramente “comune” implicherebbe – come molti commentatori più autorevoli di me hanno già detto – una politica estera comune e quindi un soggetto politico unitario, cosa che l’UE non è. Dobbiamo infatti riconoscere che l’Europa come l’avevano immaginata De Gasperi e gli altri protagonisti di quella stagione politica – che nella difesa comune avevano intravisto il primo tassello di una vera unione federale –  non si è realizzata. L’UE è invece l’esito di un compromesso senz’altro virtuoso sotto molti punti di vista, ma che ha dato origine a un ibrido politico obiettivamente fragile, fondato sui precetti dell’individualismo liberale che, nel tempo, hanno portato il progetto sempre più lontano dai valori condivisi dagli ispiratori dell’idea originaria. Del resto, l’Europa si è configurata nella storia come un insieme di popoli diversi, spesso in conflitto tra loro ma uniti da una cultura comune radicata nella tradizione greco-romana e giudaico-cristiana. Poi nella modernità ci si è illusi di poter prescindere dal fondamento trascendente di questa tradizione, perdendo così la sua forza unificante. In questo senso, nel cercare soluzioni adeguate anche al problema urgente della sicurezza, credo si debba considerare l’Unione Europea per quello che è chiamata a essere: un luogo di incontro, uno spazio di dialogo dentro e fra le nazioni, capace di includere tutti gli attori coinvolti nei diversi scenari, con il lavoro paziente e lungimirante della diplomazia. Gli ostacoli politici ed economici vanno anzitutto affrontati anche con il coraggio di trovare forme nuove, senza accontentarsi di scorciatoie di carattere militare che non risolvono i problemi, casomai li aggravano.

Il problema che l’Europa è chiamata ad affrontare oggi è fondamentalmente culturale: l’Unione deve decidere se essere fedele alla sua vocazione di luogo di incontro, di mediazione e quindi di costruzione della pace, promuovendo la centralità della persona e una cultura della sussidiarietà all’interno dei singoli Paesi, oppure contribuire all’atmosfera conflittuale che sembra prevalere su tutto. Per queste ragioni, la prospettiva di garantire la sicurezza comune mediante un investimento ingente in armamenti, a maggior ragione se affidato ai singoli Stati, mi pare davvero inadeguata, come peraltro ha sottolineato anche l’Arcivescovo di Mosca, monsignor Pezzi. E poiché il progetto politico europeo ha delle lacune a tutti evidenti, credo sia un errore pensare che il riarmo per far fronte a un aggressore pericoloso sia un buon modo per colmare il vuoto di identità che tutti percepiamo.

La condanna della Prima guerra mondiale come «inutile strage» da parte di Papa Benedetto XV assume nuovo valore a fronte delle potenzialità distruttrici delle armi di oggi. Papa Francesco non si stanca di ripetere che armarsi significa soltanto prepararsi alla guerra: mi auguro che questo monito sia tenuto presente da tutti i politici europei. Anni fa, don Giussani affermava: «La pace dipende dal fatto che l’uomo ammetta l’impossibilità di darsi la perfezione da se stesso, mentre indomabilmente riconosce il suo debito verso l’Essere» (la Repubblica, 24 dicembre 2000). Credo che anche oggi siano tanti, e non solo tra i cattolici, a condividere ciò che dice Giussani: solo la coscienza di non essere noi i padroni della storia può aprire uno spiraglio realistico e profondo alla vera pace.

Da la Repubblica, 16 marzo 2025

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Leggi l’articolo di Luigi Giussani “Qual’è il significato della parola pace” (La Repubblica 24 dicembre, 2000)

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