Como: Educare si può!

Incontro con François-Xavier Bellamy


Perché i giovani, spesso, non amano lo studio? Perché fidarsi di chi è più grande, e imparare dal passato, a molti sembrano atteggiamenti insensati?
Di fronte a tanto disagio giovanile, qual è la possibilità di costruzione di un mondo migliore? Questi e altri temi di bruciante attualità sono stati al centro dell’incontro, dal titolo “Educare: si può!”, con François-Xavier Bellamy, filosofo e insegnante in una scuola di Parigi, autore del libro I diseredati ovvero l’urgenza di trasmettere, che ha venduto oltre 30.000 copie in Francia (2014) e che è stato tradotto in italiano (Ed. Itaca 2016) e spagnolo.
L’incontro è stato proposto dal Centro Culturale “Paolo VI” e dall’Istituto Orsoline di Como, in collaborazione con Edizioni Itaca, Istituto Matilde di Canossa, Collegio Gallio, Opera Don Guanella, Ufficio per la pastorale della scuola e dell’università della Diocesi di Como e con il patrocinio del Comune di Como.

Chi è François-Xavier Bellamy e da dove prende spunto il suo libro?
12 marzo 2011: un ragazzo a Parigi uccide un coetaneo, Samy, perché ha attraversato la linea immaginaria tra due quartieri. Violenza pura, gratuita, assurda. Un gesto selvaggio a due passi dal liceo in cui ha appena iniziato a insegnare un giovane professore, François-Xavier Bellamy. Quel fatto lo porta a riflettere su una rottura inedita accaduta nella società occidentale: una generazione ha rifiutato di trasmettere la propria eredità culturale, ha “diseredato” i giovani. Dove fallisce l’educazione è inevitabile che sorga di nuovo la barbarie, che trionfi il nichilismo.
In un simile contesto, si chiede l’autore, per quale motivo entriamo ancora in classe, insegniamo, parliamo a questi allievi? Siamo condannati a insegnare, a educare, senza sapere bene perché e senza nemmeno ardire di porci questa domanda? Su cosa rifondare la didattica e, più in generale, l’educazione?
Bellamy per primo non si sottrae a questi interrogativi, nella convinzione che «l’emergenza assoluta oggi consiste nel rifondare la trasmissione. Urge riconciliarsi con il significato stesso dell’educazione per far vivere in ognuno la cultura, per mezzo della quale l’uomo diventa umano, la libertà effettiva e un futuro comune possibile».

Cronaca dell’inconto
Lo scorso 13 aprile, l’Auditorium dell’Istituto Don Guanella di Como era gremito di insegnanti, genitori e alunni, invitati dal Centro culturale Paolo VI e dall’Istituto Orsoline di Como per ascoltare l’acuta e profonda riflessione del prof. François-Xavier Bellamy, filosofo e insegnante in una scuola di Parigi, autore del libro I diseredati ovvero l’urgenza di trasmettere.
Una riflessione che nasce dalla personale esperienza di educatore del relatore, che infatti chiarisce subito di voler non tanto mettere a tema metodi o pratiche d’insegnamento, bensì concentrarsi sul punto focale, ovvero quale sia il senso del lavoro educativo. Giacché oggi in crisi è innanzitutto il ruolo dell’educatore, minato già alle fondamenta, laddove ai giovani insegnanti, come è capitato a lui per primo, si addita come compito non il trasmettere delle conoscenze, e più profondamente un senso della vita, ma far semplicemente acquisire delle strategie di apprendimento cosicché l’allievo si formi in modo del tutto autonomo e personale il proprio sapere.
Questa tuttavia è una concezione “utilitaristica” del sapere – ha chiarito Bellamy –, che si evidenzia anche nelle espressioni abituali del linguaggio quotidiano: “la cultura è un capitale”; “bagaglio culturale”; “lo studio serve ad acquisire competenze in vista della futura professione”. Ma a cosa serve faticare per immagazzinare nozioni, se il computer e internet possono fornirmele in qualunque momento e con una precisione maggiore?
Alla base di tale visione, le cui origini filosofiche sono il pensiero di Cartesio e Rousseau, sta l’idea che l’autorità sia nemica della libertà e che l’optimum sia l’assenza di ogni vincolo. In realtà si tratta di una gigantesca menzogna, ha perentoriamente affermato il professore, perché la cultura non può essere distanziata da noi stessi come un bagaglio, dal momento che la cultura fa parte della dimensione dell’essere, non dell’avere. L’identità di ciascuno di noi, infatti, è il risultato di tutte le esperienze che abbiamo fatto, delle “cose” che abbiamo appreso.
Qui risiede il “mistero della mediazione”, ciò che differenzia l’uomo dall’animale, che invece abita la dimensione dell’immediato: l’uomo è frutto di un percorso di crescita, che passa attraverso l’insegnamento. Mentre l’animale grazie all’istinto sa immediatamente qual è il suo posto nel mondo, l’uomo passa tutta la vita a cercare quale sia il suo: è un mistero di fragilità, eppure di grandezza. Per scoprire la sua identità precisa e speciale, per poter realizzare tutte le grandi cose di cui è capace, il bambino ha bisogno di incontrare un’“alterità”, che è autorità, chiamata a indicargli la strada. Per compiere, cioè realizzare pienamente, la propria natura l’uomo ha bisogno della cultura.
Potremmo allora definire “cultura” tutto ciò che l’uomo aggiunge alla natura. E, come un castello, la cultura cresce sopra le basi di chi ha pensato e costruito precedentemente; e questo non nega la libertà costruttiva di ogni nuova generazione.
Se quindi la libertà del singolo può raggiungere la sua pienezza solo nell’incontro con lo sguardo che l’altro porge su di lui e sul mondo, allora è qui che davvero si fonda la legittimità dell’educazione e la fecondità della cultura. Nessun sussidio tecnologico potrà mai prendere il posto dell’incontro con l’altro.
Apprendere in realtà significa prendere con sé. Se non riceviamo ciò che ci permette di conoscere chi siamo davvero, restiamo bloccati, incapaci di vedere e comprendere ciò che ci circonda, e perciò più inclini a cadere nella violenza. «Il contrario della cultura è la barbarie – ha affermato Bellamy –, come purtroppo sempre più spesso ci testimoniano i fatti di cronaca».
La crisi della modernità, ha rilevato il relatore, ha tutte le caratteristiche di una crisi adolescenziale perché, come l’adolescente, l’era odierna pensa di esercitare la sua libertà nel rompere con quanto le è stato trasmesso. L’adolescenza è l’età dell’ingratitudine. Così l’età moderna!
La riconoscenza, invece, nasce in chi è grato, perché riconosce, ritrova se stesso in ciò che gli è stato trasmesso.



Data

Venerdì 13 Aprile 2018 ore 21:00

Luogo

Auditorium Don Guanella, via Tommaso Grossi 18, Como