
“La pace che già c’è!” non è solo il titolo dell’incontro organizzato dalla rete dei Centri culturali Sicilia in collegamento dalla martoriata Terrasanta, l’auspicio di un futuro tanto desiderabile quanto astratto tra palestinesi e israeliani. Si tratta, invece, della descrizione di un’esperienza di pace già in atto. Un seme che, dal 1995, cresce silenziosamente ma visibilmente tra le macerie dei cuori devastati dall’odio reciproco, ancor pima che tra i detriti delle città distrutte bombe.
Dall’altra parte dello schermo, a bucarlo, gli occhi espressivi e il sorriso cordiale incorniciato dall’hijab di Laila Alsheikh, in collegamento dalla Cisgiordania, e il volto e la voce riflessivi di Maayan Inon, israeliana, di Tel-Aviv. Entrambe appartengono al Parents Circle Families Forum, una realtà che, ha spiegato la Nancy Ventura, moderatrice dell’evento, «dal 1995, riunisce oltre 800 famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso un familiare a causa del conflitto e che, anziché lasciarsi travolgere dall’odio, hanno scelto di trasformare il lutto in un impegno per la pace». Un’esperienza di riconciliazione concreta che non censura le ferite; in cui le parole vanno scelte con la stessa cure dei silenzi, perché l’altro possa avvertire l’offerta e la domanda di un rapporto sincero. “Chi vuole iniziare”? domanda la moderatrice dell’incontro che vede collegate 8 città siciliane tra Catania, Palermo, Messina e Ragusa. Maayan chiede che inizi Laila che si era collegata prima di lei.
Mentre le immagini televisive vanno consumate in un attimo e hanno l’apparenza dell’indiscutibilità, le storie hanno bisogno del tempo e dello spazio per essere comprese.
«I nostri racconti –spiega Laila allargando l’orizzonte della loro esperienza– sono personali, ma comuni a quanti vivono in questa terra». Originaria di Betlemme, figlia di insegnanti che hanno speso la vita per l’educazione nei campi profughi palestinesi in Giordania, è tornata nella città delle sue radici 1999. La sua esistenza cambia improvvisamente nel 2002 quando, nel tentativo disperato di portare in ospedale il figlio Qussay, di pochi mesi, vengono bloccati per tre volte da tre diversi check point israeliani che impediscono per oltre cinque ore, il loro passaggio. Arriveranno troppo tardi; il bimbo le muore praticamente tra le braccia. «Ho fatto l’esperienza dell’impotenza –afferma Laila– Ero piena di rabbia e di odio. Per me, tutti gli israeliani erano responsabili della morte di mio figlio, ma non volevo la vendetta. Non mi avrebbe ridato mio figlio». Gli anni passano. «Mio marito avrebbe voluto altri figli –prosegue il racconto– ma perché metterli al mondo se il loro destino è lo stesso ciclo di violenza e di morte?
La vita cambia per un incontro. Per sedici anni, in famiglia, si evita ogni riferimento a avvenimento doloroso. Nascono altri figli. «Poi un giorno, un amico che non vedevo da tempo inizia a parlarmi del Parents Circle e mi propone di partecipare a un incontro. Mi sono rifiutata di ascoltarlo: “Come puoi propormi una cosa del genere sapendo cosa mi è successo?” – gli ho detto. Ma lui mi ha chiesto: “Perché non hai parlato ai tuoi figli di quello che è accaduto a Qussay?” “Perché non cercassero la vendetta” gli ho risposto. “Forse –ha detto lui– questa è un’occasione per te per salvare altre famiglie”.
Dopo molta insistenza, Laila decide di partecipare inoltrandosi in un territorio sconosciuto ma sorprendente in cui scopre che solo chi ha sperimentato lo stesso dolore può comprenderci davvero. Lei che non aveva mai parlato con un israeliano che non fosse un soldato. Per la prima volta ascolta il dolore di una famiglia ebrea. E si commuove. Inizia un percorso di riconciliazione. Anche all’interno della propria famiglia. «Ho cominciato a parlare della morte di Qussay ai miei figli e, per la prima volta dopo 16 anni, anche con mio marito». Accade l’impossibile. «Una volta, dopo avere sentito la mia storia, una donna israeliana si avvicina e mi dice: «Io non ti ho fatto questo male, ma il mio popolo sì. So per esperienza cosa provi. Io posso capire anche le parole che non riesci a dire”. Ci siamo abbracciate». Quattro anni fa, a Gerusalemme, durante un incontro del PCFF, la nostra amica nota un uomo che l’ascolta tra le lacrime. «Quando è toccato a lui raccontare di sé, ha detto di essere un ex alto ufficiale a cui era capitato di ostacolare la corsa in ospedale di una famiglia palestinese con sei piccoli. «Qualche tempo dopo era toccata a lui un’esperienza analoga in cui, in maniera inopportuna, ci si frapponeva al suo bisogno di fare ricoverare con urgenza un figlio suo. E aveva capito! Aveva lasciato l’esercito e iniziato a battersi per porre fine all’occupazione. «Ascoltarti mi è costato tantissimo –gli ho detto– ma ti ringrazio per non avere nascosto questi fatti e avere avuto il coraggio di rivelarli. Io ti posso perdonare”. È stata un’esperienza di riconciliazione, in cui le belle parole che spesso pronunciamo con leggerezza, come “pace” o “amore”, per diventare reali, costano fatica».
La ferita di Maayan, madre di due figlie, è più fresca: risale al 7 ottobre. I suoi genitori vivevano nel villaggio di Netiv Ha’asara, a pochi chilometri da Gaza. Gente semplice. il padre agricoltore, la madre insegnante d’arte. «Hanno cresciuto me e i miei quattro fratelli –racconta– in un clima di familiarità e di rispetto dei tanti operai gazaui che lavoravano nelle nostre coltivazioni. Negli anni ’70 e ’80, incontrarsi non era un problema. Anche quando Hamas prese il potere e gli attacchi missilistici rendevano difficile sentirsi al sicuro, lui ci invitava a non avere paura, mentre il governo ci chiedeva di costruire muri più alti e più spessi».
Il 6 ottobre tutta la famiglia avrebbe dovuto riunirsi a nella casa dei genitori per celebrare una ricorrenza ebraica. All’ultimo momento il programma cambia e si ritrovano a Tel-Aviv. I genitori, però, decidono di non trascorreranno la notte con loro. Il giorno seguente, quello del massacro, trascorre nel susseguirsi, sempre più angosciato, di messaggi a cui nessuno risponde e nel rifiuto di seguire i telegiornali. «All’improvviso, mentre passavo da una stanza all’altra, –prosegue Maayan– ho avuto la visione di mio padre che allargava le braccia nell’atto di abbracciarmi e mi diceva: “non ci siamo più”. Alcune ore dopo il sorvegliante del villaggio ci ha comunicato di essere riuscito a raggiungere la casa dei miei genitore, ma che era completamente bruciata. Di mio padre e di mia madre nessuna traccia». Sebbene i corpi non fossero trovati, i fratelli decidono di iniziare la Shiva, il lutto ebraico di sette giorni. Subito uno dei fratelli propone di pubblicare un messaggio in cui si rifiuta la logica della vendetta. «Per me non è stato immediato –ammette– Non volevo vendetta, ma non riuscivo nemmeno a pronunciare la parola “pace”». In quei giorni, in tanti, ebrei, cristiani e musulmani li vanno a trovare per partecipare del loro dolore. Quando uno dei fratelli le parla del Parents Circle, Maayan è scettica: «Cosa significavano adesso parole come “pace” e “riconciliazione”?» Non erano forse proprio quelle praticate dai loro genitori? «Mi colpiva che le persone del PCFF avevano una risposta». Non una cura istantanea, ma un percorso. «I miei genitori volevano per noi una vita buona; e in cosa consisteva – si era detta– se non nell’amare e nel potersi fidare di nuovo? Dovevo aprire il cuore. Ma –precisa con grande realismo– ogni giorno devo decidere da capo». All’inizio nasconde alle figlie quegli incontri con famiglie palestinesi, ma poi, davanti all’esperienza cede. «Ogni volta che li incontravo la ferita sanava un po’ di più. La settimana prossima ci vedremo per la prima volta dopo quel 7 ottobre. Riabbraccerò Laila, che per me è famiglia».
Quale speranza per la Terrasanta? «La speranza è un gesto –afferma Laila– è ciò che facciamo! Dobbiamo deciderci a fare la speranza». Occorre coraggio e una mente lucida per dire cosa vogliamo costruire». «Ogni essere umano merita la vita –commenta Maayan con tono pacato– per questo siamo insieme; per ricordarcelo e per costruire una vita degna, libera, senza discriminazioni».
Una vita non da immaginare, ma a cui guardare. Un seme che ha già fatto germogliare una realtà fatta di uomini e donne come Laila e Maayan. Una pianta da non calpestare inseguendo progetti mirabolanti o rivendicazioni inverosimili. Una piccola sorgente d’acqua fresca che, traboccando, può fare fiorire il deserto.
Mario Tamburino
