Il Centro Culturale di Milano ha organizzato lo scorso 9 giugno 2016 una serata in onore di Carlo Betocchi di cui ricorre il 30° anniversario della morte, il 25 maggio (Torino, 23 gennaio 1899 – Bordighera, 25 maggio 1986) con Giancarlo Pontiggia, poeta e docente di Letteratura Italiana e Davide Rondoni, poeta e scrittore. L’evento dal titolo “Carlo Betocchi a trent’anni dalla morte: la presenza, la parola e la grazia” fa parte del ciclo “Maestri fuori dall’ombra”, curato da Francesco Napoli, scrittore e critico letterario. Lo stupore attonito dinanzi alla realtà, la drammatica esperienza della fede e la vivissima commozione per il mistero della libertà fanno della poesia di Carlo Betocchi (1899-1986) uno dei tesori più fecondi della letteratura italiana del Novecento. Il cristiano senso di carità verso il vivente fa della sua voce una traccia di bellezza e di ragionevolezza di sorprendente attualità.
Un gigante silenzioso, maestro di tanti, da Caproni a Luzi. Giovanni Raboni ricordava, alcuni anni fa, che da un punto di vista critico e del riconoscimento della sua presenza, Betocchi fosse messo un po’ in ombra rispetto ad altri, mentre in realtà sia vitale per il tessuto della poesia del Novecento. E’ uno di quei poeti profondamente umani che si fanno, in un certo senso, paterni con chi viene dopo, con cui è possibile dialogare. E’ un poeta romanico, aggettivo che gli riferisce Caproni, un poeta capace cioè di costruire un edificio robusto, ben piantato, saldo e riconoscibile nel suo orientamento, nel suo disporsi verso il mondo. Un poeta fermo, saldo, che ha fissato alcuni punti fermi. Perciò, per chi viene dopo, è possibile dialogare, da qualsiasi punto di vista. La sua umiltà e senso religioso, che lo ha messo in contatto epistolare con intellettuali e poeti, si veda ad esempio il sostegno a Pasolini, anche quando non solo la censura ma la critica volgeva altrove.
Betocchi aveva scelto la ragione per cui poetare, quell’umiltà creaturale forse perché più vicino al limite ultimo. Diceva spesso di non poter adottare l’eleganza della poesia del Novecento, lui che ha imparato a scrivere seguendo il canto di David, il salmo, con il muso in terra. Un canto che fosse solidale, riconoscente e comune prima di tutto verso il creato, celebrato in quelle forme cosi gioiose ed entusiastiche. Poi verso anche gli uomini, i fratelli, i compagni di strada non sentiti mai come inferiori o sminuiti rispetto al poeta dotato di voce e di espressione. Tutta la poesia di Betocchi trabocca di questo tema dell’opera comune e della comunione con gli uomini comuni.
E’ un poeta misterioso perché resiste ad ogni tentativo di annessione, di così piena ed intima grandezza da essere difficile da collocare nella storia dei modi e delle forme di letteratura, bisognoso ogni volta di essere riscoperto.
In un certo senso Betocchi è stato sia nella lode sia anche nella pronuncia molto chiara e anche terribile della nullità umana, l’unico poeta francescano e anche Iacoponico del nostro Novecento: come c’è la lode delle creature in “Realtà vince il sogno”, c’è anche il canto di questa morte sentita sorella in alcune poesie altissime e commoventi.
Aveva scelto una poesia che veniva dalla terra, che sapeva rispondere alla realtà, senza aver bisogno di scartare il reale per un sogno, andando controcorrente rispetto alla cultura predominante il secolo, come nella raccolta In “Realtà vince il sogno” (che dà titolo al volume Collana dello Spirito cristiano diretta da Don Luigi Giussani, BUR)
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