Milano: Manchester by the sea
Il Centro “Il Circolino” ha organizzato la proiezione del film “Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan. Un idraulico di Boston è obbligato a tornare a casa a Manchester quando apprende la notizia della morte del fratello. L’incontro-scontro con lo sfortunato nipote e la condiviione di un comune drammatico destino sconvolgono suo malgrado la routine di una vita solitaria, condotta senz atempo e senza luogo.
Umano, fino a rifiutare persino il tentativo di riavvicinamento dell’amata moglie, può diminuire quel senso opprimente di vuoto che sta facendo evaporare la sua vita, dovuto all’impossibilità radicale di sentirsi accettato, se non giustificato.
L’atmosfera cupa che circonda la vicenda, acquita dalla liquida e immobile fotografia del magnifico paesaggio oceanico, muto testimone dell’insostenibile tragedia che si articola tra le sue anse, nasce proprio dalla convinzione strutturale che per lui non ci possa essere alcuna chance di poter essere perdonato, che non ci sia cioè nessuna speranza di redenzione.
Questa totale incapacità di accettare anche solo l’idea di poter un giorno arrivare a perdonarsi, rende così impossibile una qualunque possibilità di riscatto, una minima opportunità di ricominciare a vivere.
Ma paradossalmente è proprio un secondo evento luttuoso, più prevedibile, anzi annunciato, cioè la morte dell’amato e ammirato fratello maggiore, da tempo malato, che fa scattare la possibilità di un cambiamento.
Infatti la consapevolezza di dover condividere con il proprio nipote, divenuto orfano (e per di più con la madre alcolizzata), la dolorosa perdita degli affetti più cari, lo costringerà a dover cambiare le proprie consolidate abitudini, fino a considerare l’opportunità di rinunciare alla propria “consolante” solitudine, per far posto alla presenza ingombrante del nipote.
Pur non riuscendo infatti a restare al paese natio nel Massachusetts, appunto Manchester By the Sea, sentendosi lì irrimediabilmente giudicato, e pur tuttora incapace (forse assuefatto) di manifestare esternamente il proprio insopportabile dolore, Lee deciderà comunque di preparare una stanza a Boston per ospitare il nipote, aprendo così uno spiraglio, seppure minimo, di speranza, di possibilità di tornare a essere felici, come nella bellissima scena finale in cui zio e nipote si ritrovano, come un tempo, a pescare insieme sulla barca di famiglia.
Riflessioni a caldo dopo la visione de La forma dell’acqua
Quale è la forma dell’acqua? L’acqua non ha forma, perchè prende la forma del suo contenitore. Esattamente come l’amore, che, come dice il regista, prende la forma della persona amata, anche quando ha l’aspetto, inizialmente repellente, di un mostro acquatico.
Questo però un “mostro” buono ed anche attraente, di cui si innamora Elisa, una creatura dai poteri sovrannaturali, in grado di guarire chi incontra fino a resuscitare sé stesso e la persona che ama, ma che l’ordine costituito vuole mettere a morte.
In questa moderna e soprendente parabola i riferimenti evangelici sono piuttosto evidenti, benché mai esplicitamente ammessi dal regista messicano, pur di famiglia e formazione dichiaratamente cattolica.
L’ambientazione della vicenda negli anni bui della guerra fredda, rende ancora più lacerante il divario tra le figure dei tre protagonisti, cariche di profonda, anche se a volte inespressa, umanità, e quelle degli altri personaggi, tutti ingabbiati in ruoli asetticamente istituzionali, peraltro comicamente inefficaci e improduttivi, incapaci soprattutto di accorgersi del valore straordinario rappresentato dalla misteriosa creatura acquatica.
E la scenografia claustrofobica del laboratorio di ricerca, simile a una sala di tortura, rende ancora più opprimente e cupa la pesante atmosfera di quai tempi, condizionata dalla psicosi del confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
In questo clima apparentemente senza speranza, saranno le persone più semplici a percepire il “buono” che c’è nello strano mostro, e sperimentare così su di sé quale ricchezza incalcolabile e totalmente imprevedibile porti l’accoglienza e la contaminazione col diverso, la capacità di andare oltre al proprio miope orizzonte, la disponibilità e l’apertura incondizionata all’incontro con l’Altro.
E cosa accomuna in fondo i tre protagonisti, se non il fatto di essere dei perdenti, degli emarginati, degli esclusi, secondo i canoni e le leggi del mondo?
Elisa è muta e quindi per definizione è tagliata fuori dai rapporti col resto del mondo che “conta”.
Zelda è nera e quindi colpita dal pregiudizio razziale nell’America profonda degli anni 60
Giles è gay e quindi anche lui discriminato e isolato dalla società perbene e dal mondo del lavoro.
Ma l’incontro imprevisto con questa creatura straordinaria li cambierà (anche fisicamente), li farà uscire dal proprio esilio, dalla propria solitudine, fino ad acquistare una forza e una determinazione totalmente nuova e impensabile, che li renderà in grado di aggirare e sbeffeggiare l’apparato oppressivo e ottuso dei militari americani e delle spie russe, inerti e inconsapevoli elementi di un grottesco ingranaggio di potere, con l’unico obiettivo di perpetuare sé stesso.