Campobasso: La sfida del vero dialogo

Gennaio 29, 2016
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“L’altro è un bene. La sfida del vero dialogo, anche in politica.” È questo il titolo dell’iniziativa svoltasi giovedì 10 dicembre 2015 a Campobasso, nell’Università del Molise, e promossa a seguito della pubblicazione del libro di don Julián Carrón “La bellezza disarmata” (Rizzoli, 2015) con prefazione del Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid, Javier Prades. Il libro presenta gli elementi della riflessione svolta dal sacerdote a partire dal 2005, anno della sua elezione a presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione dopo la scomparsa del fondatore, Mons. Luigi Giussani, che nel 2004 lo aveva chiamato dalla Spagna per condividere con lui la responsabilità della guida del movimento. L’iniziativa offre un’occasione di confronto sul tema della politica e del suo ruolo nella società contemporanea, come pure sull’importanza dell’esperienza umana personale come elemento che riguarda chiunque sia impegnato nella propria vita. A discuterne a Campobasso sono Costantino Esposito, docente di Storia della filosofia nell’Università di Bari, e Flavia Monceri, docente di Filosofia politica nell’Università del Molise.
Il punto di partenza di questa riflessione è la constatazione di un percepibile malessere nella società occidentale, che si esprime in forme ambigue e spesso ideologiche, a cui in Europa ha contribuito una serie di fattori: la grave crisi economica, il calo delle nascite, le evidenti difficoltà che il processo di integrazione degli immigrati sta registrando, la scarsa partecipazione istituzionale. Tuttavia la difficoltà della società europea non si riduce a sole forme esteriori. Le sue radici vanno più a fondo, coinvolgendo anche aspetti morali, culturali, antropologici e religiosi. Questo malessere diffuso mette tutto in discussione, privandoci dei riferimenti, delle certezze e delle evidenze che qualificavano il nostro “convivere” fino a cinquanta anni fa, con il rischio di incorrere nell’incomunicabilità di posizioni e idee. «Una crisi – afferma Hannah Arendt – ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce» (Arendt 1991: 229). Quando il rapporto con la realtà è stato compromesso, quando è difficile riconoscere e abbracciare il reale così come ci appare, esistono strade da percorrere per contribuire alla convivenza e alla pace nella società occidentale? Ad esempio, quali sono le risposte che la politica offre a quelle sfide che ci fanno paura, alle lusinghe del fondamentalismo islamico verso i giovani europei, al terrorismo di matrice islamica, al grande flusso migratorio che sta investendo tutta l’Europa, alla violenza verso le categorie più deboli, nonché al diffondersi di innumerevoli atteggiamenti xenofobi? Il presidente della Repubblica francese François Hollande, dopo gli attentati terroristici di matrice islamica che hanno colpito la città di Parigi lo scorso 13 novembre, ha dichiarato che «la Francia è in guerra». Muovendo da questo assunto, nel suo discorso al Parlamento riunito in seduta Comune a Versailles, François Hollande delinea la strategia della Francia nella “guerra al terrorismo”: l’intensificazione dello sforzo bellico e dei raid aerei, la costruzione di una coalizione internazionale anti-Is, la richiesta agli altri Paesi dell’Unione europea di attivare l’articolo 42 del Trattato che prevede l’aiuto degli Stati membri al partner aggredito. Sul piano interno, invece, chiede al Parlamento di cambiare la Costituzione e di estendere lo «stato di emergenza» e la «chiusura delle frontiere». Dunque, quando uno Stato si trova di fronte a una minaccia superiore alla forza ordinaria o, più in generale, in uno stato di emergenza, può scegliere di adottare misure restrittive per la tutela dei propri cittadini, fino ad arrivare, in taluni casi, alla limitazione di alcuni diritti individuali e di alcune garanzie per i diritti dell’uomo. Spesso queste situazioni di incertezza vengono strumentalizzate da certi movimenti che, con estenuanti propagande, approfittano dell’occasione per farsi portavoce della paura e dello sconcerto suscitato dagli eventi, fomentando il risorgere di nazionalismi, razzismi, fanatismi e intolleranze che non lasciano spazio al dialogo. Questo tipo di propaganda può avere come esito il depotenziamento del pensiero critico di coloro che, digiuni di conoscenze politiche ed estranei a ogni impegno in questioni di interesse pubblico, possono cadere preda di ideologie, definite da Hannah Arendt come «ismi che per la soddisfazione dei loro aderenti possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa» (Arendt 2004: 641). Nei Paesi sviluppati, la dipendenza da protezioni forti che diventano fragili e la paura di perderle crea una condizione di insicurezza diffusa che coinvolge i diversi segmenti della vita sociale, portandoci a scorgere negli “Altri” e “Diversi” il pericolo (Bauman 2014). Nel calcolo tra essere persecutori o vittime, cadiamo preda della rassicurante suddivisione del mondo in “Bene” e “Male”, trovandoci a ragionare per categorie.
«L’interesse che mi ha suscitato la lettura di questo libro – afferma Esposito nel corso del suo intervento – è il fatto che pone una questione bruciante sulla crisi che stiamo attraversando. La tesi di fondo del libro è che la competenza per capire di cosa si tratti e come risolverla è personale di ognuno di noi». Ma qual è il problema dell’Europa, la radice della sua crisi e che cosa veramente è in gioco? «A rischio oggi sono proprio l’uomo, la sua ragione, la sua libertà, inclusa la libertà di avere una ragione critica – si legge in alcuni passi del testo dove sono anche riportate alcune parole di don Luigi Giussani – Il pericolo più grave non è neanche la distruzione dei popoli, l’uccisione, l’assassinio, ma il tentativo da parte del potere di distruggere l’umano. E l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con l’infinito» (Carrón 2015: 10-11). Tali affermazioni sembrerebbero paradossali dopo gli attentati di Parigi, perché noi europei ci sentiamo feriti, toccati e commossi da questi fatti, eppure non siamo toccati allo stesso modo dalla sorte infausta dei profughi siriani in mare. «Il misterioso, denso letargo» in cui galleggiano molti occidentali è, secondo Carrón, il «risultato di una riduzione dell’Io, dell’originario desiderio di felicità dell’uomo, ad opera di una cultura dominante che, come avvertiva già Bernanos, logora, impoverisce, confonde» (Corradi 2015). Il piano sequenza è allargato e aiuta a capire che il problema è molto più ampio, coinvolgendo tutti noi: la distruzione dell’umano non è solo insita in alcune strategie politiche e religiose, ma abita le nostre coscienze, il nostro animo. La natura della crisi, dunque, riguarda, come già detto ed evidenziato da Carrón, prima di ogni altra cosa i fondamenti e, in particolare, la consapevolezza che oggi è ancora più difficile riconoscere «ciò che è veramente giusto e servire così la giustizia nella legislazione» (Carrón 2015: 11).
Don Giussani, nel definire il potere come una tentazione di ridurre l’esperienza umana a un’antropologia tale che ognuno di noi sarebbe il prodotto di certe combinazioni biologiche, di istinti da soddisfare e di ruoli sociali da realizzare, propone la religiosità come una valida alternativa al nichilismo e all’individualismo dell’uomo occidentale, in quanto pone la persona in una fitta rete di relazioni con qualcosa di più grande. Non a caso, l’esperienza della fede cristiana è il punto di partenza de La bellezza disarmata.
Al di là delle infinite visioni del mondo, delle contrapposizioni ideologiche, morali, culturali e religiose, esistono esperienze ed esigenze umane irriducibili: il desiderio della felicità, il compimento della propria vita, l’affermazione della pace e della giustizia. I punti da cui partire, per costruire un dialogo con l’altro, sono allora l’aderenza alla realtà, il valore della propria esperienza di vita e l’incontro. Quest’ultimo evoca l’assoluta apertura all’altro, senza schermi e mediazioni. Se si segue questa riflessione anche le situazioni caratterizzate dall’incombere di minacce e tensioni possono essere segnate da elementi positivi che sfidano l’incomunicabilità di posizioni e idee. Abbiamo bisogno di testimoni, più che di maestri, di persone che cercano e incontrano l’altro senza proclami. Una testimonianza straordinaria in questo senso è quella data da Papa Francesco quando ha aperto la Porta Santa e del Giubileo nella lontana Repubblica Centrafricana. Rose Busingye, un’infermiera ugandese consacrata impegnata ad accogliere e curare gli ammalati di Aids in Uganda, ricorda la fila di persone che in questo paese, sfidando ogni scetticismo, paura e raccomandazione, aspettava il Papa lungo le strade per vederlo passare: «Eravamo tantissimi, e non solo cristiani, anche musulmani o non credenti. Ma eravamo tutti lì guardando un punto fisso che si avvicinava e poi ci passava davanti guardandoci a sua volta» (Vites 2015). Un “Giubileo delle periferie” assolutamente inedito nella storia della Chiesa. (Rosa Tagliamonte)


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