Case history di una presenza culturale post Covid-19
Alcune riflessioni nate dal lavoro di questi mesi e dagli incontri avuti durante il Meeting
Il ciclo “Come un picnic sul tetto” nasce in modo esplicito, diretto e consapevole da una sorpresa ‘preparata’ durante i mesi di lockdown e accaduta infine – quasi ‘esplosa’ – nella nostra esperienza di lavoro insieme.
Lo stesso titolo della rassegna ne è diretta espressione. Nei personaggi di Manalive, infatti, la sorpresa del cielo che ‘esplode’ all’apertura della botola sul tetto ne ‘trascina’ immediatamente la passione pur addormentata, facendoli entusiasmare anche per quella proposta così strana e inusuale come un picnic sul tetto.
Ma quello che sembrava solo un titolo indovinato, è diventato la descrizione della dinamica stessa che è emersa sia nella preparazione sia nella realizzazione degli eventi. E noi siamo stati i primi a essere trascinati dalla visione inaspettata del cielo, da una “sorpresa umana” che potremmo descrivere come un inizio nuovo, una “tensione di attesa” e di speranza.
È come se questo riaccadere di una umanità con tutta la sua potenza di domanda e, insieme, di stupore, di scoperta, di tenerezza, fosse diventata la cosa più interessante e addirittura più desiderabile nel nostro lavoro di preparazione e poi dell’incontro con i nostri ospiti; come il prendere atto ogni volta di un avvenimento di lealtà, quasi di solidarietà, che stabilisce con l’altro un ‘ambito’ comune di interesse, fa accadere qualcosa che riguarda la vita stessa.
Per tanti anni ci siamo dibattuti in quella che sembrava, tranne poche eccezioni, la grande divisione tra incontri di testimonianza da una parte e conferenze tematiche dall’altra; questa ricomposizione è tutta nella nostra consapevolezza, nel nostro sguardo, nella proposta che facciamo ai nostri relatori e agli ‘utenti’ dei nostri eventi. Ed è proprio qui che emerge tutta la nostra originalità culturale. “Nessuno mi aveva mai chiesto questa cosa”, “Nessuno mi aveva capito così”, Nessuno si era interessato a…” Questo sguardo all’umano è capace di guardare e di vedere, di apprezzare (e quindi di giudicare) in modo diverso da quello di tutti. Davanti a questo sguardo diverso, a questo sguardo ‘amoroso’, interessato prima di tutto a loro, i relatori ‘accettano’ una relazione non banale e non convenzionale, e tante volte un piccolo soprassalto o una emozione esplicita tradiscono la loro sorpresa. Potremmo chiamarla “sorpresa di un’amicizia” o di un amore (all’interno del quale accade un incontro e un confronto, un ‘cambiarsi’ vicendevole altrimenti impossibili).
Certo, questa attenzione per i nostri relatori non è nuova, abbiamo sempre tenuto a loro e desiderato un rapporto privilegiato e di accoglienza. La novità riguarda il valore conoscitivo di questo rapporto e, così, l’efficacia e la consapevolezza del nostro compito culturale.
Cosa incide infatti oggi sulla mentalità dominante? Cosa muove la percezione della realtà in noi e nei nostri amici, come si struttura o si modifica il modo con cui giudichiamo le cose e i fatti della vita?
“Se non troviamo qualcosa che ci consenta di avere questa tenerezza verso la nostra sete, verso la nostra umanità, finiamo per guardarla come una ferita che vorremmo strapparci di dosso (…) per non sentirne il dramma, per non avvertire l’insufficienza di tutte le cose in cui riponiamo le nostre attese, per non dover fare i conti con la sproporzione tra quello che desideriamo e quello che riusciamo a ottenere” (Carrón, “Il brillio degli occhi”).
È forse improprio pensare che oggi il compito, anche specificamente culturale, sia quello di ‘salvare’ tutti gli uomini (come diceva Péguy), di fare tutto perché un uomo, ogni uomo che incontriamo possa guardare la propria umanità con tenerezza invece che odiarla? Non è forse questo il punto più doloroso ed evidente della nostra modernità? E non è, anche, il mistero del grido infinito dell’uomo, l’unico granello di polvere che può inceppare il grande meccanismo del sistema tecnico? Anche solo parlando di efficacia di una nostra ‘opposizione’ dovremmo ormai esserci resi conto di come questo ‘sistema’ sia perfettamente in grado di assorbire ogni discorso e ogni altro tipo di insurrezione.
Il prototipo di questa relazione (per rifarsi anche a un ‘modulo’ culturale) è il percorso con cui Giussani affronta gli autori che gli sono cari, come ad esempio Leopardi. L’intervento in Cara beltà potrebbe essere la descrizione esatta del nostro fare cultura, o almeno della consapevolezza che dovremmo avere oggi.
Giussani la chiama “promessa strutturale”, proprio quella che il nichilismo pratico dei giorni nostri ha nel mirino come suo primo obiettivo, e la riconosce, impara a riconoscerla dentro le parole di Leopardi (a dimostrare che non si tratta di un discorso sopra, fuori dalle cose ma nel merito di esse).
Una relazione, dunque, che non è solo un dialogo tematico con i nostri ospiti, ma è accoglienza, riconoscimento, stima della verità del grido che nasce dal loro cuore. E in quel grido che mostra tutta la sua portata, essi e noi stessi per primi, insieme, ci riscopriamo uomini e uno sguardo diverso può fiorire su tutta la realtà. Noi, responsabili di questa ‘amicizia’ per sempre.
«È, infatti, così forte il grido dell’esigenza che costituisce il cuore dell’uomo, è così forte e potente e bello che, come per natura, non ci si può non sentire trascinati e dire: “Già, è vero”, cioè non ci si può non mettere almeno in tensione di attesa per quel che deve venire come possibile risposta positiva.»
Roberto Gabellini, Centro Culturale di Rimini
Rivedi la serie di incontri promossi da “Il Portico del Vasaio” di Rimini sulla loro pagina You Tube