Centro Culturale Neapolis di Napoli

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La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo«Genus humanum arte et ratione vivit»(S. Tommaso) La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, «è» di più, accede di più all’«essere».
“Tutti gli uomini da sempre tendono al sapere”. Con queste parole Aristotele dà avvio al primo libro de “La Metafisica”. Ai nostri occhi questa frase s’impone per l’evidenza che porta con sé. Un’evidenza che si rende riconoscibile ancor prima del moto della ragione. L’uomo nasce, quindi, per il significato che le cose ri – velano, o meglio svelano ricoprendosi immediatamente. L’uomo, costantemente proteso alla ricerca del vero, della strada che conduce alla prima delle cause, al “Fattore” che si fa “fattura”, scopre qualcosa di sé nella ricerca. È nella ricerca che si riconosce uomo. Così, indomabilmente, il suo cammino dura da sempre, dall’Ignoto al Nuovo per giungere al Vero. A noi, gente dell’ultimo secolo disordinato e confuso, “uomini stanchi e impagliati”, come afferma il poeta Eliot, non resta che cercare, a dispetto o forse in grazia delle vicissitudini e delle calamità della vita, di ridestarci a ciò che vi è di buono e di grande, per cui il nostro cuore è fatto.
Le scene ripetute che, specie negli ultimi mesi, ritraggono una città avvilita, che sembra divorare se stessa, palesano una anarchica negazione di quella tensione. L’anarchia alla quale si fa riferimento non pertiene a un’assenza di governo (la nostra città ha, se mai, vissuto storicamente un eccesso di governo), quanto alla mancanza di “inizi”. Una civiltà cui è invidiata la possibilità stessa del cominciare è, stricto sensu, una società costretta, come sostiene George Steiner nel suo “Grammatiche della creazione”, a ricordare “i futuri che furono” a concentrarsi, come troppo spesso accade, nel ricordo querimonioso di un tempo passato, da opporre al presente della disperazione. Sottrarre a una comunità la consuetudine col tempo futuro, la abitudine all’incipit, quell’ambito in cui l’uomo sembra avvicinarsi al divino mercé l’atto creativo, significa negare la speranza che al tempo futuro rimanda.
L’idea di organizzare un ciclo di incontri culturali su temi diversi e di ascoltare testimoni di varie estrazioni culturali nasce dalla convinzione che la cultura, se vissuta nei termini di un rapporto vivo con la città, attraverso l’esercizio e la pratica di una tradizione culturale tràdita e tradìta al tempo stesso, possa aprire spazi di alterità rispetto al già dato, possa e debba rintracciare nel reale tracce di quel non-inferno cui allude il Calvino delle ultime righe de “Le città invisibili”. Cercare e saper riconoscere nell’inferno ciò che non è inferno e farlo durare e dargli spazio ridiventa possibile solo se una comunità di uomini accetta la sfida della realtà e si fa conscia della necessità di osservarla, per apprenderne, proteggendo e consolidando tutti quegli aspetti del reale che mostrano un carattere non infernale. Siffatta persuasione motiva il gesto di cominciare (è il caso di dirlo) un percorso di riflessione con incontri periodici, teso a istituire una relazione viva con una tradizione che non ci consegni a una potenza coercitiva, proveniente dal passato e dall’irrevocabile. Fare cultura significa mettere in libertà, porre nella libertà del dialogo con ciò che è stato. Il sapere non sarà trattato allora come un corpo morto, sacro, intoccabile che si possiede una volta per tutte, ma come ciò che continuamente deve essere messo in gioco nel dialogo. E nel mettere in gioco il sapere, metteremo in gioco noi stessi, la nostra vita.